Piovani replica a De Simone: «Geloso della fama di Eduardo»

Piovani replica a De Simone: «Geloso della fama di Eduardo»
di Nicola Piovani
Sabato 8 Novembre 2014, 22:43 - Ultimo agg. 9 Novembre, 22:01
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Per il maestro Roberto De Simone ho un’ammirazione che rasenta la venerazione. Gli devo serate teatrali indimenticabili e la scoperta di una preziosa parte della cultura musicale e teatrale napoletana, della quale mi sono innamorato in gioventù.



Lo scorso 6 novembre il maestro ha scritto su queste colonne un articolo intitolato: «Luci ed ombre del mito chiamato Eduardo». Ma, in realtà, il maestro scrivendo si è dedicato quasi solo alle ombre, sembrando quasi infastidito dalle luci che in questi giorni vengono puntate sull’artista De Filippo. E nell’articolo, altro che ombre, ci indica un vero e proprio buio pesto, esprimendo perentoriamente giudizi riduttivi.



De Simone si rammarica del fatto che le commemorazioni per il trentennale dalla morte non siano servite a «una rilettura storica e critica» per colpa di una incapacità a «collocarsi nel presente e di valutare nella contemporaneità o nelle proiezioni future». Innanzitutto non sono certo che le cerimonie commemorative legate agli anniversari siano le occasioni più adatte alle revisioni critiche. E inoltre, mi ha particolarmente colpito una curiosa stonatura nell’argomentare: infatti all’inizio il maestro auspica un «collocarsi nel presente e nella contemporaneità» ma poi a seguire si rammarica del fatto che Eduardo abbia portato un deciso rinnovamento rispetto alla tradizione scarpettiana, dei Petito, dei De Muto, e rimpiange l’epoca degli attori D’Alessio, Cafiero, Fumo, Maggio e altri grandi della tradizione passata, compreso suo nonno, l’omonimo Roberto De Simone. Ma Eduardo, proprio partendo da questa tradizione che ben conosceva, ha sviluppato una drammaturgia legata alla propria contemporaneità. Ha costruito un teatro potente e ancorato al suo oggi, modificando gli stilemi recitativi classici indirizzandoli verso un recitare semi-naturalistico più adatto a focalizzare i drammi paradossali di una piccola borghesia nascente, lasciandosi alle spalle «Quei figuri di tan’anni fa». In una parola, un teatro “moderno” – per il suo tempo. Ha operato guardando a prua, e non con la testa rivolta all’indietro. È partito da quella grandiosa tradizione, che conosceva come pochi altri, per inventare un teatro in grado di parlare a mezzo pianeta, come testimoniano le decine di traduzioni in decine di lingue e le rappresentazioni che ogni giorno si danno nel mondo delle sue commedie; e come testimoniano le turnée trionfali della compagnia di Toni Servillo in Europa e in America.



Tanti sono i luoghi comuni sul teatro eduardiano perbenista, conciliatorio, o addirittura buonista, per riferire un tristo neologismo. Un teatro che invece alle mie orecchie “straniere” risulta pervaso di acidulo pessimismo, spietato anti-familismo, amaro anti-moralismo, dimensioni del tutto assenti nella magica tradizione scarpettiana. Intendiamoci, tutti ridiamo fino alle lacrime nel vedere e rivedere la lettera di «Totò, Peppino e la malafemmena» citata da De Simone, ma questo non ci impedisce di commuoverci fino alle lacrime di fronte al sublime finale di «Gennariniello».



Regge poco, secondo me, anche l’accusa di aver gradualmente attenuato il linguaggio dialettale «a favore di una italianizzazione delle forme idiomatiche per risultare più comprensibile a Roma, a Firenze, a Milano» - cioè di aver fatto quello che ogni teatrante vero fa quando recita fuori casa. A tale proposito voglio solo ricordare che anche Goldoni toscanizzava le sue commedie, proprio col deprecabile scopo di farsi capire dal pubblico. E lo stesso avrebbe fatto anche il nonno di De Simone andando a recitare a Bolzano.



Quasi tutti, credo, ammiriamo il talento che c’è nelle canzoni di Pino Daniele e nel sassofono di James Senese, ma da qui a opporli come visione drammaturgica all’autore di «Questi fantasmi!» ce ne dovrebbe correre. De Simone cita e loda il «piccone distruttivo» del Living Theatre che irruppe in Italia negli anni Sessanta che, a suo giudizio, avrebbe demolito «tutto il teatro di parola». Ma quella rivoluzionaria esperienza, che tutti ci esaltò, al vaglio del tempo mi suona ormai come una disinnescata memoria da salotto di nonna Speranza, se confrontata con la grandezza di «Sabato, domenica e lunedì».



Insomma, il geniale autore di «Gatta Cenerentola» inizia il suo intervento con un appello alla modernità, ma poi seguita con un pezzo tutto nostalgia per il teatro pre-eduardiano del bel tempo che fu. Attenzione: tutti siamo liberi di amare e non amare qualsiasi celebrato autore, Shakespeare compreso. Ma De Simone, usando argomenti zoppi per ridimensionare un grande artista, finisce per dar credito alle voci maligne di chi lo ritiene un rivale geloso. Geloso della fama di Eduardo, dei riconoscimenti e degli onori che oggi gli sono riservati. I quali onori, per quanto riguarda il mio piccolo pensiero, sono sempre troppo pochi.



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