Massimo Bottura a Napoli:

Massimo Bottura
Massimo Bottura
di Santa Di Salvo
Giovedì 18 Dicembre 2014, 17:33 - Ultimo agg. 26 Dicembre, 18:27
3 Minuti di Lettura
Vedi Napoli, innamorati e poi prendi le distanze. «Inutile che gli chef del Sud continuino a fare i compiti ricopiando la cucina dei Monzù. La tradizione va onorata con senso critico, mai con sterile nostalgia». La ricetta di Massimo Bottura è sempre la stessa: se davvero vuoi rendere omaggio alla grande cucina meridionale, allontanati abbastanza per guardarla da lontano. Quel tanto che basta a buttare via il passato che non serve e a conservare il meglio per il futuro. Bottura ha conquistato Napoli con le sue storie di vita e di cucina, nell’incontro di martedì scorso al Parker’s, voluto da Maurizio Cortese per presentare “Vieni in Italia con me” (Ippocampo). Lo Steve Jobs italiano, lo hanno definito per le sue sane eresie e la sua passione travolgente. Tre stelle Michelin alla sua «Osteria Francescana» di Modena, top chef di fama mondiale ai primi tre posti del World’s Fifty Best, Bottura ha incontrato Napoli in un abbraccio.

«Ho camminato tra la folla per il centro antico come in trance. Non sapevo dove guardare, tanti gli stimoli eccitanti che mi arrivavano a ogni secondo. A San Gregorio Armeno tra i presepi (anche a me hanno dedicato un pastore), ho pensato che mi piacerebbe aprire un ristorante nel centro antico. Vorrei reinterpretare una strada, si può fare?».



Certo che si può, maestro.

«Macchè maestro, io sono un cuoco. Fino a qualche anno fa persino i modenesi mi guardavano storto perchè non facevo i tortellini come quelli della nonna. In Italia è così, ci sono cose che non puoi toccare: il calcio, il Papa e la buona tavola di una volta. Adesso, con la fama e i riconoscimenti internazionali, forse hanno capito che il piatto si fa più col cervello che con le mani, e che la cucina è un gesto sociale».



Anche la pizza?

«Accidenti, certo. La pizza è una questione di pensiero, la pizza è un gesto intellettuale. In questi ultimi tempi sono proprio i vostri pizzaioli ad aver avuto più consapevolezza critica. Stanno facendo lo stesso lavoro che faccio io. Analizzano le componenti, le materie prime. Lievito, farine, olio, pomodori. E crescono tanto. Così si reinventa la cucina napoletana antica, senza copiare passivamente!».



Perché a Napoli non ci sono ristoranti di eccellenza?

«Perché le donne napoletane sanno cucinare bene, mi hanno risposto in tanti. Preda, ancora una volta, della sindrome nostalgia. Noi spesso ci dimentichiamo che la tradizione non aveva rispetto per le materie prime. Invece il cuoco contemporaneo sa che contadini, allevatori, pescatori, casari, pastai sono i veri eroi del nostro tempo. Certo, abbiamo un passato straordinario. Ma chi ha creato allora le ricette era un innovatore, se oggi noi ci limitiamo a ricopiarle siamo solo cattivi imitatori».



A quanta distanza consiglia di guardare Napoli per raggiungere l’obiettività?

«Bastano pochi chilometri. Infatti vedo segnali molto positivi in provincia. Penso a Francesco Sposito di Taverna Estia a Brusciano, a Marianna Vitale di Sud a Quarto. Ecco come si ricostruisce criticamente un patrimonio. Poi naturalmente c’è la grande cucina della Costiera dove è nata la nuova tradizione mediterranea, grazie all’instancabile lavoro della famiglia Iaccarino. Qui davvero i cuochi hanno capito che la memoria non è un monumento statico, ma un patrimonio in perenne evoluzione».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA