Clan Zagaria in Campania. Pen drive sparita, identificato l’agente corrotto

Clan Zagaria in Campania. Pen drive sparita, identificato l’agente corrotto
di Leandro Del Gaudio
Sabato 21 Novembre 2015, 15:54 - Ultimo agg. 08:53
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C’è il nome di un agente di polizia attualmente a piede libero, accanto a un’ipotesi di accusa abbastanza chiara: quella di avere venduto una chiavetta usb a un imprenditore in odore di camorra, dopo averla sottratta nel corso di un blitz eccellente. Che storia è questa? È l’ultima puntata dell’inchiesta sulla cattura di Michele Zagaria, quella legata alla presunta «trattativa» che sarebbe stata intavolata subito dopo il blitz in via Mascagni. Ricordate il clamore di quell’episodio? Era il sette dicembre del 2011, quando dopo quindici anni di latitanza, Michele Zagaria consegna i polsi alla polizia. Un caso solo apparentemente chiuso, dal momento che qualche mese fa, è la Procura di Napoli a riaccendere i riflettori su questa vicenda.



Siamo agli arresti dell’operazione «Medea», quelli sulla gestione delle acque, quando scoppia il caso legato all’arresto dell’imprenditore Orlando Fontana: stando all’accusa, avrebbe versato 50mila euro nelle mani di un agente di polizia infedele, che gli avrebbe «riconsegnato» il supporto informatico, che poi sarebbe stato consegnato a quelli del clan Zagaria. Vero o falso? Scenario inquietante, che oggi fa registrare un nuovo tassello, grazie al deposito di una memoria della Procura di Napoli, in vista dell’appello fatto dai legali di Fontana (i penalisti Marco Epifania e Gianfranco Mallardo).

Cosa dice il nuovo atto investigativo? Nel fascicolo spunta il nome di un agente indagato, uno stretto collaboratore dell’ex capo della squadra mobile di Napoli, il primo dirigente Vittorio Pisani, che - bene chiarirlo - in questa storia non è mai stato toccato formalmente da indagini.



C’è il nome di un agente, anche se la storia della pen drive è riconducibile non a una «trattativa» tra lo stato con il camorrista, ma a una sorta di mercimonio privato di basso cabotaggio. È quanto emerge dalla testimonianza messa agli atti da una donna che in quella casa di via Mascagni ci ha vissuto e che ricorda la disposizione (oltre che l’uso) dei computer di famiglia.



Stando alla ricostruzione della testimone, la pen drive esisteva davvero, era a forma di cuore ed era costellata di brillantini tipo Swarovski. Ma è sempre la donna ad aggiungere particolari: era un supporto informatico usato dalla figlia, conteneva musica e canzoni, niente altro. Viene meno, al momento, l’idea di una sorta di archivio personale dell’ex superlatitante, anche se non è chiaro se la pen drive stesse nel covo di Zagaria o nella parte superiore della casa. Restano in piedi le accuse a carico del presunto agente corrotto. Avrebbe agito da solo, per incassare una discreta somma di denaro, quanto basta per restituire la pen drive sottratta nel corso del primo ingresso nel bunker di via Mascagni. Un’inchiesta che resta aperta, che fa i conti anche con testimonianze incrociate: come il confronto tenuto dinanzi ai pm tra Fontana e l’imprenditore Maurizio Zippo, a sua volta tirato in ballo nel corso di una ormai famosa intercettazione tra i fratelli imprenditori Raffaele e Augusto Pezzella. Un confronto in cui i due interlocutori sono rimasti sulle proprie posizioni, mentre tocca ora alla Procura di Napoli (i pm Alessandro D’Alessio, Maurizio Giordano e Catello Maresca, coordinati dall’aggiunto Giuseppe Borrelli) tirare le somme anche nei confronti del presunto agente corrotto. Chi è il presunto poliziotto infedele? Spiega la donna ai pm: «Venne a casa anche successivamente al blitz, sono in grado di riconoscerlo...».