Cirillo: il vero bersaglio dei giudici era Gava

di Gigi Di Fiore
Martedì 28 Luglio 2015, 23:28 - Ultimo agg. 23:49
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Il tempo è passato inesorabile. Il piccolo signore anziano che parla con lucidità, ma a voce lenta, ha ormai 94 anni compiuti a febbraio. Ciro Cirillo esce poco dalla sua casa di Torre del Greco. «Non ce la faccio a camminare a lungo da solo» spiega, aggiungendo: «Deve sorreggermi la coppia di filippini che è con me da anni». Un uomo, che mostra ironia e sembra guardare in lontananza le pagine e pagine di giornali, le decine di libri, le migliaia di atti giudiziari che si sono occupati della sua vicenda che ogni tanto viene ricordata e analizzata. Sono passati otto anni dalla precedente intervista concessa al Mattino. Ciro Cirillo la ricorda, come ricorda che allora era presente il figlio Bernardo. Fu in quell’occasione, il 28 aprile 2006, data che segnava 25 anni dal suo rapimento, che Cirillo mostrò il video dei suoi interrogatori registrato dai brigatisti. La musica dell’internazionale socialista e le bandiere delle Br accompagnavano le sequenze fisse sul volto affranto dell’ex presidente della Regione Campania. Il brigatista Antonio Chiocchi conduceva l’interrogatorio, rivolgendosi al prigioniero con il tu. Materiale conservato ancora, insieme con ritagli di giornali.





Presidente Cirillo, dopo 34 anni che cosa le resta ancora di quell’esperienza ?



«Ricordi sfumati. La memoria resta buona, anche se ho dei vuoti sui nomi. Ogni tanto qualcuno dichiara di aspettare delle mie clamorose rivelazioni segrete».





Ne ha da fare?



«Macché, tutto un bluff. Ci fu un periodo in cui ero assediato dai giornalisti. Brillavano soprattutto due cronisti toscani, mi scusi ma non ne ricordo il nome. Per togliermeli di torno, inventai la storia di un mio memoriale segreto con chissà quali verità».



Non lo ha mai scritto?



«No. Dissi anche che lo avevo dato ad un notaio, che lo conservava in cassaforte. Non era vero. Ma quell’invenzione ebbe effetto, per un po’ sono stato lasciato in pace».



Ha seguito l’ultimo batti e ribatti sul suo rapimento tra Isaia Sales e Paolo Cirino Pomicino?



«Poco, anche se leggo ogni giorno Il Mattino. Ho intravisto cose già lette e ho lasciato perdere. Si tratta di una vicenda più chiara di quanto la si è dipinta. Ci fu un’istruttoria, che aveva un solo obiettivo: incastrare Antonio Gava».



É una sua convinzione?



«Diciamo così. Quando al Suor Orsola Benincasa ci fu la presentazione della trasmissione di Minoli che si sarebbe occupato del mio rapimento, in sala c’era anche il giudice Alemi. Gli espressi la mia convinzione».



Un’istruttoria politica, dice: non ci fu trattativa tra la Dc e Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova camorra organizzata?



«Non ne sono mai stato a conoscenza. La chiave dell’iniziativa giudiziaria era solo colpire Gava».



Ha sentito dell’arresto di Pasquale Scotti, ultimo esponente di rilievo della Nco, a lungo rimasto latitante? Molti pensano possa fare rivelazioni sul suo rapimento.



«Non so davvero chi sia».



Dopo tanti anni, cosa ricorda di più della vicenda giudiziaria successiva alla sua liberazione?





«Ricordo che il giudice Alemi minacciò di far arrestare i miei figli per reticenza. Poi, per fortuna non lo fece. Voleva sapere da dove fossero venuti i soldi del riscatto versato alle Br per la mia liberazione».



Da dove arrivavano?



«Da amici diversi, che si offrirono di partecipare ad una colletta promossa dalla mia famiglia, per motivi umanitari. Molti non li conoscevo neanche. Anzi le racconto un aneddoto».





Dica...



«Anni dopo, ero in costiera sorrentina, non ricordo dove, ma c’era un signore che mi fissava. Mi avvicinai e gli chiesi il motivo. Mi rispose che era uno di quelli che aveva dato un suo contributo alla colletta e che lo aveva fatto con piacere, anche se non ci conoscevamo. Mi sembra fosse un costruttore napoletano, ma sui nomi ho davvero molte difficoltà».



Non ricorda altro di quell’esperienza?



«Non voglio ricordare più, dopo tanti anni, cose che mi rendono cattivo e io d’indole non lo sono. Mi resta dentro una circostanza ancora dolorosa dopo tanto tempo, che già le raccontai otto anni fa».



Si riferisce al suo rapporto con la Dc?



«Proprio così. Mi riferisco alla lettera di dimissioni da consigliere regionale, che mi fecero firmare. Era già stata scritta a Roma, mi arrivò una minuta da siglare. La conservo ancora. Dovevo uscire di scena, per ragioni politiche. Io che ero stato presidente della Regione e assessore».





Firmò con dolore?



«Sì. Ci piansi. Erano dimissioni sotto dettatura. Dopo 30 anni, dovevo dire addio alla politica. Da allora, non me ne occupai più, appoggiai solo in una campagna elettorale la candidatura di Enzo Scotti».



Segue sui giornali le vicende politiche attuali?



«Poco. Mi faccio portare i giornali, leggo anche libri. L’ultimo è stato quello di Bruno Vespa. Cerco di mantenermi ancora attivo nella mente. Sa, sono un uomo che è passato attraverso due secoli. Sono nato nel 1921 e ora siamo nel 2015. Ne ho passate davvero tante».



I suoi figli li vede spesso?



«Certo.
Mi telefonano due-tre volte al giorno. Sono preoccupati per la mia età. Ma, tranne che per i nomi che dimentico e per le gambe che non mi sorreggono, vado avanti».