Grecia, i 4 errori che spiegano la crisi

di Oscar Giannino
Lunedì 29 Giugno 2015, 23:29 - Ultimo agg. 23:43
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Nell’ultimo giorno prima che, a mezzanotte, si sospendano gli aiuti alla Grecia, è il caso di fare qualche riflessione fuori dal coro sulla tumultuosa serie di eventi che, sfuggendo di mano alla Ue come alla Grecia, sono in corso. «Fuori dal coro» significa fuori dagli opposti estremismi scatenatisi, non solo in Grecia ma anche a casa nostra – basta dare un’occhiata ai toni sui social networks –, su chi ha ragione e chi ha torto, sui presunti «servi della Germania» contrapposti a chi «vuole i pasti gratis». Il veleno del nazionalismo e dell’odio impedisce ogni seria riflessione: ai greci, nei giorni decisivi in cui dovranno decidere cosa votare il 5 luglio, ma anche in Italia e in tutta Europa.



Primo: si naviga in mare senza sapere dove sono le secche. Ieri sera il Ministero dell’Economia ha emesso una nota importante. «Un’eventuale evoluzione negativa della crisi greca – si legge - potrebbe avere conseguenze su altri soggetti finanziari ai quali l’Italia partecipa, ma la quantificazione dell'impatto diretto sull’Italia di una tale evoluzione non è praticabile con le informazioni attualmente disponibili». E’ proprio così. Nessuno può davvero sapere che cosa avverrà se i greci votassero no, né può avere la pretesa di calcolarne le conseguenze, sull’Italia e non solo sull’Italia. Il MEF prosegue dicendo che «anche negli scenari meno favorevoli, è dubbio che vi siano effetti diretti sull’Italia», ma è ovvio che tale conclusione smentisce la premessa e fa parte del dovere elementare di rassicurazione che un governo deve sempre esercitare.

Nessuno può sapere cosa avverrà, ci siamo inoltrati in un mare di cui non abbiamo carte e portolani. Conosciamo molti esempi di paesi che sono usciti da unioni monetarie o cambi fissi, ma le conseguenze per ciascuno di essi sono state diverse nel tempo a seconda della propria diversa economia, export, e bilancia dei pagamenti. Ora una cosa è certa: se siamo in mare senza rotta prestabilita è perché in sei mesi di trattativa gli errori sono stati dei greci, ma non solo dei greci.



Secondo: il precipitare delle reazioni. L’Unione Europea, a cominciare dalla Germania, doveva sapere che Tsipras non sarebbe diventato al tavolo della trattativa un Giano bifronte, rispetto alla promessa su cui ha vinto le elezioni. Ergo: bisognava dare un tempo ristretto al negoziato, diciamo un paio di mesi, invece di aspettare proposte da Atene immaginando potessero essere diverse d quelle arrivate in extremis, costruite al 93% su assai poco credibili aumenti di tasse e contributi in un paese che fiscalmente è fallito (80 miliardi di tasse a ruolo non riscosse, su un Pil di 180 miliardi). Se in un tempo breve non si fosse raggiunto un accordo tra Atene, Ue, Bce e Fmi, ragionevolezza avrebbe dovuto consigliare di metter mano a trattive su procedure diverse, per evitare nella misura del possibile i danni sia per la Grecia sia per noi tutti in caso di mancato accordo. Per capirci, due esempi. O procedure per consentire semi-default a paesi membri – molto più parziale di quello chiesto dai greci, che già ne hanno ottenuto uno mastodontico pari al 60% del debito detenuto da privati, nel 2012: ma ora il problema è che il debito è soprattutto nelle mani dei governi dell’eurozona e dei loro veicoli finanziari condivisi) – ma restando nell’euro. Oppure, ancora più radicalmente, procedure per un’uscita dall’euro di membri che non ne condividano più le regole, ma offrendo loro la facoltà di restare nell’Unione Europea. Simmetricamente consentendo a chi esce dall’euro ciò che i Trattati consentono a chi non è mai entrato nell’euro o ha cambiato idea per strada, come la Polonia. Perché dovrebbe essere irragionevole? Per difendere il mito dell’irreversibilità dell’euro? E’ meglio perdere un pezzo di Occidente mediterraneo e regalarlo a Putin? Nella storia non esistono le monete-prigione, nei cambi fissi si entra o si esce a seconda di scelte o, quasi sempre quando si esce, per dura necessità, quando gli squilibri di bilancia dei pagamenti e di finanza pubblica non sono affrontabili in termini di aumento della produttività. Si dice: ma i trattati europei non lo prevedono. E allora vanno cambiati: è più stupido rinunciare a un’idea buona che difendere un trattato che non la prevede.

Terzo: il gioco del terrore. Al contrario, dopo sei mesi l’euroarea ha detto ai greci quel che per molti versi si spiega eccome, ma che oggi certo non aiuta. In parole povere: ci avete scocciato, Tsipras e i suoi credono di poterci ricattare e di ottenere ancora denaro in cambio di parole e ora basta, sbattete il muso e vi leviamo anche gli aiuti. La convinzione dietro questa strategia dell’ira è che la paura di greci, a banche chiuse per una settimana, li porti domenica prossima a sconfessare Tsipras, obbligato a quel punto o a dimettersi o a rimangiarsi tutto. E’ una strategia molto rischiosa. Insieme a turchi e polacchi, i greci sono i più nazionalisti tra gli europei. Il terrore potrebbe sortire l’effetto esattamente opposto, e in ogni caso nell’Europa latina ha scatenato contro l’euro proprio coloro che, da destra e da sinistra, la pensano come Tsipras, si tratti di Podemos, di Grillo, Salvini e Forza Italia da noi (su quest’ultimo aspetto ci sarebbe da dire, visto che i seguaci di Berlusconi sono in totale dissonanza col loro gruppo europeo, ma tant’è). Mettiamola giù dura: le istituzioni europee hanno commesso l’errore – ieri, con le parole di Juncker – di apparire superiori e diffidenti rispetto all’espressione della sovranità popolare che avverrà col referendum greco. E’ un altro errore capitale. L’Unione europea e l’euro possono vivere e crescere se hanno capacità di esercitare fiducia e di ottenere consenso, non sulla paura. La paura aiuta i demagoghi populisti che la coltivano di mestiere, se non lo fosse ancora capito.



Quarto: l’Italia muta. Vedremo che cosa sceglieranno ora i greci, e come e se l’Europa sarà capace di gestire il seguito, qualunque esso sia. L’Italia ha dato una delega per sei mesi a chi teneva il pallino in Europa, cioè alla cancelliera tedesca. E ieri dopo 2 ore che la Merkel aveva parlato, Renzi ha twittato in inglese le sue stesse parole, e cioè che i greci il 5 luglio devono scegliere tra l’euro o la dracma. Non è una buona scelta. Primo, perché, come detto, si dovrebbe consentire ai greci di restare comunque nella Ue, se lo vogliono, anche senza euro. Secondo, e soprattutto, perché in questa partita l’Italia non rischia quel che rischia la Germania. Ma molto, molto di più. L’ammontare dei debiti greci è superiore verso la Germania, visto che il più del debito si distribuisce (tranne che per le tranche bilaterali, che per noi valgono 10 miliardi) per le rispettive quote parte nel capitale della BCE e dell’ESM. Ma se le cose girano storte l’Italia, oltre a rinunciare ai crediti che vantiamo verso i greci, rischia un imprevedibile – torniamo alla nota del MEF da cui siamo partiti – aggravio del costo del debito pubblico sui mercati. Un aggravio capace di fare molto ma molto male alla nostra sin qui stentatissima ripresa economica. Levare una voce italiana di ragionevolezza non significa rompere il fronte europeo, bensì offrire a Ue e Grecia almeno qualcuna delle prospettive concertate indicate in precedenza, per gestire al meglio gli esiti decisi dalla sovranità popolare – che va rispettata – ma senza scatenare i cavalli irosi della follia collettiva. Come invece, per tante ragioni e tra tanti nitriti di battaglia, sembra oggi.