Il sottile confine tra impresa e flop

di Marco Ciriello
Venerdì 22 Maggio 2015, 23:39
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Il centro psicologico di ogni scontro tra Juventus e Napoli è un nodo di nostalgie impastate a politica, cultura e geografia, con intransigenti custodi del tifo attorno al campo di gioco. In pratica la geometria del calcio fa irruzione nei contesti delle due città e scava fino a tirar fuori il meglio e il peggio; non è mai una partita qualunque, quando non c’è nulla, si gioca in una corrente contrapposta di ideologia aspra e giustificazioni da guerre.

Per farla breve, e per spiegare l’Italia il suo sud e Napoli a chi italiano non è, Maradona disse a Kusturica nel suo film: «Capisci, Emir, che significa andare a vincere a Torino contro l’avvocato Agnelli?» Kusturica non afferra proprio tutto ma annuisce declinando la cosa come una separazione religiosa. E alla fine è anche un po’ così. Questa volta sembrava semplice, la Juventus a metà del triplete, con scudetto e Coppa Italia, stelle e coppe su maglia e in bacheca, tutta rivolta a Berlino al Barcellona e alla finale di Champions, poteva arrivare distratta a una partita che invece per il Napoli è tutto; quindi poteva lasciare sulla fasce o meglio ancora in panchina il fragore della sua fame di vittorie, se si fosse giocata a Napoli, purtroppo si gioca a Torino, e quindi la Juve, Allegri e i suoi, sono costretti a non avere nessuna indulgenza, e a vincere per festeggiare e non sfigurare, tornando a casa, nel proprio Stadium, usando i più agguerriti rivali come sacrificio e auspicio per l’impresa da compiere in Europa. Vi risparmio la sociologia, e il resto che di solito arriva per spiegare l’obbligo di sottomissione pallonaro, si racchiude tutto nella «Bella figura», un concetto meridionale masticato, digerito e acquisito anche a Torino. Questo precipita di nuovo la partita nel panico, riscrive la tensione e la consegna alle piccole grandi imprese da compiere. È curioso che il Napoli di Benitez – mai fortunato quest’anno nemmeno sui falli laterali – si ritrovi a giocare la partita chiave di una stagione schizofrenica contro la squadra archetipo, contro l’Avversario, e pur avendola battuta a Doha con altro spirito e altri orizzonti calcistici, debba temere il suo cannibalismo, debba riconsiderarsi e rimisurarsi, in un confronto che o è gloria o catastrofe, e dove il pareggio non serve. E, volendola ridurre alle bandiere, è anche un confronto tra la fame e il pragmatismo da strada di Tevez e del mondo Boca Juniors, e i capricci di genio di Higuain e il lusso del River Plate. Faccio questo esempio perché nelle due squadre questi due calciatori hanno pesato: sarà che Tevez ha meno tempo di Higuain, i suoi campionati stanno finendo, sarà che Tevez ha le spalle coperte da un vero centrocampo, ma la sua passione agonistica compensa la leggera supremazia tecnica di Higuain. La Juve si è identificata in Tevez facendosi sporca e cattiva e mangiando campionato, Coppa Italia e Champions; il Napoli si è perso nelle rabone emotive di Higuain, nell’estetica che non diventa mai risultato, anche per una pressione isterica, saturnina, sugli spalti e nelle piazze che verrà storicizzata quando Benitez annuncerà il suo nuovo grande club, che saprà rispondere meglio alle sue richieste e saprà aspettare la costruzione di una squadra che come quella di un amore, richiede lenta costruzione. Alla fine, nemmeno questa volta sarà una banale partita di fine campionato, ma un lungo gemito di fantasmi, con reliquie viventi (vedi alla voce Pirlo), in una contrapposizione antica, che si fa liturgia delle occasioni, possibilità di riscatto, in un campionato legnoso e piratesco.