«Così smitizziamo la morte tra mogli e fantasmi in 3D»

di Stefano Prestisimone
Mercoledì 25 Novembre 2015, 18:06 - Ultimo agg. 24 Novembre, 23:56
3 Minuti di Lettura
Quando fu portata in scena per la prima volta, nel 1941, «Spirito allegro», finì nel mirino della critica per come rappresentava in maniera leggera un argomento serio come la morte. Ma era un periodo buio, in piena Seconda guerra mondiale, e Noel Coward, l’autore inglese, l’aveva scritta proprio per esorcizzare l’orrore del conflitto. Il pubblico non si lasciò condizionare dalla critica e ne decretò il successo tanto che la commedia restò in scena per quasi duemila repliche consecutive nel West End, circa 6 anni di fila. Ora quel titolo, che approdò anche ad Hollywood nel 1945 con Rex Harrison protagonista (vinse un Oscar per gli effetti speciali), e che ha avuto una recente versione teatrale a Londra e Broadway con Rupert Everett e Angela Landsbury, arriva al Teatro Diana da stasera con Leo Gullotta mattatore assieme a Betti Pedrazzi, Rita Abela, Federica Berni, Valentina Gristina e Sergio Mascherpa, con la regia di Fabio Grossi. E la produzione della stessa Diana Oris.



Gullotta, com’è il suo «Spirito allegro»?

«È una commedia di situazione di gran classe, elegante, ben scritta, ironica, divertente, che smitizza il tabù della morte e gioca con la parapsicologia. È ambientata negli anni ’40, così come l’aveva scritta Coward, dunque con costumi d’epoca, scenografia suggestiva, le musiche delle big band americane di quegli anni. Per la prima volta useremo il 3D a teatro e il video mapping per rendere al meglio la presenza degli spiritelli che aleggiano».



E il suo Charles Condomine?

«Il protagonista, il famoso scrittore inglese che per documentarsi sul genere paranormale decide di organizzare una seduta spiritica in compagnia di Ruth, la seconda moglie, e una coppia di amici. Ma una medium evoca Elvira, prima moglie dello scrittore morta anni prima. Si innescano così equivoci e battibecchi fra le due consorti, una viva, l’altra presente sotto forma di fantasma...».



Il suo rapporto con Napoli?

«Mi sento a casa, qui ho girato tanti film e sono stato innumerevoli volte a teatro, l’ultima l’anno scorso per l’apertura del Mercadante con “Prima del silenzio” di Patroni Griffi. E poi sono catanese e con Napoli c’è senso di appartenenza forte. Il mare, il sole, una certa filosofia di vita. Napoli è una città di contrasti, viva, vitale e con una cultura straordinaria».



Torna in tv dopo lo stop del Bagaglino?

«Tra poco torno su Raiuno in una fiction poliziesca, “La Catturandi”, dedicata alla squadra che opera in Sicilia e compie operazioni antimafia. È tutto molto tosto e vero, con Massimo Ghini, Anita Caprioli e Alessio Boni».



Lei si dedica al supporto di giovani che vogliono provare a intraprendere la carriera artistica.

«Cerco di dare una mano nel mio piccolo. Ho prodotto con Fabio Grossi il film-documentario “In arte Lilia Silvi”, ideato e diretto da Mimmo Verdesca, che racconta la vita e la carriera dell'ultima diva del cinema dei telefoni bianchi e che ha vinto il Nastro d’argento 2012. Io ho cominciato da ragazzino e poi mi sono ritrovato nello Stabile di Catania accanto a Turi Ferro e Salvo Randone. I giovani vanno sostenuti se hanno buone idee. E se mi chiamano maestro, io rifiuto. Sono per tutti Leo, un artigiano di questo mestiere».