L’ho interrogato molte volte non va preso per oro colato

di Raffaele Cantone
Domenica 22 Febbraio 2015, 22:38 - Ultimo agg. 23:17
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La morte di Carmine Schiavone, avvenuta ieri, rappresenta un passaggio per molti aspetti fondamentale della storia della camorra. Chiude un ciclo e sancisce ulteriormente la fine di uno dei clan più potenti e feroci operanti in Campania, quello dei «casalesi», divenuto noto in tutto il mondo grazie al best seller di Roberto Saviano, Gomorra.



Carmine Schiavone è stato, infatti, il primo importante collaboratore di giustizia che ha cominciato a parlare di quel sodalizio, delineandone con precisione gli assetti interni, indicando le gerarchie del potere criminale, e parlando degli affari imprenditoriali e dei rapporti con pezzi di primissimo piano della politica locale e nazionale. Qualcuno in passato lo aveva persino paragonato a Don Masino Buscetta; paragone forse eccessivo, per la diversissima caratura criminale dei due soggetti, ma con un fondamento di verità; così come aveva fatto il pentito siciliano per Cosa nostra, Schiavone gettò un fondamentale cono di luce su una realtà criminale fino a quel momento molto poco conosciuta e soprattutto sottovalutata.



I casalesi che erano stati considerato un clan di «bufalari» venivano finalmente considerati nella loro pericolosità e pervasività anche sociale. Il suo pentimento, che risale al 1993, si inserì, fra l’altro, in un filone di collaboratori di primissimo piano che fiorirono subito dopo le stragi siciliane, in un momento in cui lo Stato mise in campo, forse per la prima volta nella sua storia, un apparato repressivo in grado di fronteggiare lo strapotere mafioso.



In quegli anni scelsero la strada dell’abbandono della criminalità personaggi del calibro di Pasquale Galasso e Carmine Alfieri, solo per citarne alcuni, nomi oggi forse noti solo agli addetti ai lavori ma che erano al vertice di quell’apparato criminale molto diverso dalla mafia nella sua struttura orizzontale, ma non meno pericoloso.



Il pentimento di Carmine Schiavone forse aveva avuto rispetto ad essi persino un valore aggiunto; provenendo dall’ambito familiare di quello che era il capo indiscusso di quel sodalizio di cui condivideva anche il cognome, cominciò a minare le fondamenta di quel clan che poi ha avuto bisogno di quasi vent’anni per sgretolarsi del tutto. Carmine era infatti il cugino di Francesco Schiavone, detto Sandokan, e di tanti altri affiliati che portavano lo stesso cognome perché appartenevano allo stesso ceppo familiare. Rappresentò per questa ragione una rottura fondamentale di una logica omertosa che fino a quel momento aveva retto senza crepe.



I suoi numerosissimi e lunghissimi verbali, raccolti soprattutto da due pm molto esperti, come Lucio di Pietro e Federico Cafiero de Raho, ricostruirono scenari sconosciuti che si riferivano a molte vicende non solo casertane e napoletane, ma anche siciliane e calabresi e consentirono l’inizio del più importante processo alla camorra divenuto noto come «Spartacus 1».



Ho conosciuto personalmente Schiavone quando sono entrato nella Dda di Napoli nel 1999; prendendo il posto di Federico Cafiero de Raho, ereditai vari processi nati dalle sue dichiarazioni e soprattutto mi occupai della sua collaborazione.



L’ho ascoltato decine di volte: aveva una capacità che forse era anche il suo limite; era una persona capace di leggere le vicende che raccontava in contesti più ampi e di delineare scenari che venivano da sue deduzioni che, se pur lucide, non erano supportate sempre da sue dirette conoscenze. Il tempo e soprattutto le successive collaborazioni di altri esponenti casalesi avevano anche un po’ ridimensionato il ruolo che egli stesso si era attribuito all’interno del clan; più che essere uno dei capi, come si era descritto, era, invece, uno degli uomini di fiducia della famiglia Schiavone; non aveva avuto ruoli rilevanti nell’attività militare del clan ma ne conosceva molti aspetti proprio per il suo rapporto fiduciario con il resto della famiglia. Conosceva, invece, benissimo il mondo dell’impresa casertana e campana, essendo lui soprattutto un imprenditore del clan; e da pentito aveva persino provato a riprendere questa attività.



C’è però una fase ultima della sua vita, quella più recente, che appare decisamente meno comprensibile e che getta qualche ombra. Si è aperta quando Schiavone è uscito dal programma di protezione; del resto è davvero una follia connessa al nostro sistema giudiziario quella per cui un soggetto possa continuare a collaborare dopo oltre vent’anni dall’inizio di un percorso comunque difficile e tormentato.



Questa nuova fase comincia con un’intervista di Schiavone a una rete nazionale in cui egli racconta quanto già detto anni prima sul traffico dei rifiuti tossici. Quelle dichiarazioni anni prima non trovarono adeguati riscontri ma ebbero il merito di aprire l’attenzione dell’opinione pubblica e delle autorità sulla cosiddetta terra dei fuochi.



Schiavone ora inizia un vorticoso e continuo andirivieni in tutti i canali nazionali e locali in cui discetta su tutto, a volte rischiando di dare un’immagine di se stesso assai meno credibile, come quando afferma di essere stato lui l’artefice di tutte le lauree in medicina conseguite in provincia di Caserta.
Una parabola quest’ultima che non sminuisce affatto l’importanza dell’apporto precedente; senza di lui sarebbe stato oggettivamente molto difficile abbattere un clan camorristico pericolosissimo e potentissimo.