La città insicura e il ping pong dei responsabili

di Vittorio Del Tufo
Venerdì 24 Aprile 2015, 22:35 - Ultimo agg. 23:10
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Nove mesi fa il quattordicenne Salvatore Giordano moriva travolto da una slavina di calcinacci: lapidato dagli stucchi privi di manutenzione della Galleria Umberto, nel cuore di Napoli. Tutti sapevano che la facciata della Galleria cadeva letteralmente a pezzi: nessuno intervenne.



Urla nel silenzio, quelle dei vigili del fuoco: dieci anni di fonogrammi «urgentissimi» e inascoltati. E ben sette cedimenti prima della tragedia: mai crollo fu più annunciato, mai scricchiolii e presagi furono più sinistri.



Eppure, dopo sei mesi di indagini e un indecente scaricabarile tra il Comune e i soggetti privati coinvolti (i proprietari e gli amministratori degli immobili in quel tratto di Galleria) è stato necessario risalire agli anni Ottanta di due secoli fa, e precisamente a una seduta di consiglio comunale del 23 agosto 1889, per stabilire che dietro il crollo c’è una responsabilità pubblica, riconducibile alla gestione del Comune.



Queste le conclusioni a cui è pervenuto il consulente tecnico nominato dalla Procura, un primo punto fermo in attesa di una verità giudiziaria che speriamo arrivi in tempi rapidi. C’è stato dunque bisogno di rispolverare gli archivi dell’Ottocento per districarsi nell’incredibile ginepraio di competenze incrociate, nello sterminato rosario di atti, concessioni, documenti, verbali e carte bollate che hanno avvolto in una nuvola, per oltre 126 anni, ogni responsabilità relativa alla manutenzione della Galleria.



Per stabilire, cioè, chi dovesse fare cosa, assumersi l’onere della manutenzione, prevenire i dissesti. Tremiamo al pensiero di quanti edifici e condomìni, in città, si trovino nella stessa situazione della Galleria.



Tremiamo al pensiero di quanto sia incerto e confuso il quadro delle responsabilità, di quanto la macchina della prevenzione sia incline a inabissarsi, ogni volta, nella palude della burocrazia, in quella sorta di zona grigia o limbo dove ogni responsabilità è confusa, ogni materia è schiumosa, ogni luce è annebbiata. E di quanto tutto ciò rischi di portare, sul fronte della manutenzione degli edifici, a un’eterna e scellerata fuga dalle responsabilità.



Centoventisei anni fa era tutto più chiaro di oggi: le competenze più definite, le responsabilità più nette. Questo non ci rassicura affatto: non è normale dover risalire ai tempi di re Umberto I per sapere quello che abbiamo il diritto di sapere, senza se e senza ma: cioè chi debba provvedere alla manutenzione della città dove viviamo.



La mancanza di dialogo e di comunicazione tra uffici pubblici e soggetti privati non aiuta, come non aiuta l’attuale babele di competenze, perché ognuno, in questa babele, può sostenere sempre e comunque che «tocca agli altri», e non si capisce più chi deve controllare chi e chi deve adempiere cosa. Ogni giorno, davanti ai nostri occhi, si presenta la seguente scena: interi edifici ingabbiati e impacchettati senza una data certa di fine lavori.



Non vorremmo, mentre continuiamo a piangere il povero Salvatore, che questo impacchettare all’infinito i palazzi e i monumenti serva proprio a questo: a congelare gli interventi di messa in sicurezza e fuggire dalle responsabilità, rinviando «sine die» la conclusione dei lavori.