Ma il Sud non può rimontare da solo

di Isaia Sales
Venerdì 29 Maggio 2015, 23:11 - Ultimo agg. 23:39
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Le condizioni del Sud d’Italia fanno opinione sull’Economist, uno dei più autorevoli settimanali economici al mondo, suscitano commenti allarmati come quello di Romano Prodi, impensieriscono il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, ma non scaldano il cuore né la mente del governo, dei suoi ministri e del Pd. Non se ne preoccupano affatto.



Diversi ministri sono scesi al Sud in questa campagna elettorale in due importantissime e strategiche Regioni meridionali (la Puglia e la Campania), ma non si ricorda una sola frase, un’idea, un commento, una proposta degna di essere annotata su quelle stesse condizioni economiche che hanno fatto tanta impressione all’Economist.



È sceso anche il presidente Matteo Renzi, e ancora l’altro ieri a Melfi, che addirittura ha affidato alla vittoria di De Luca in Campania il compito di risollevare il Pil meridionale: e non si sa se si è trattato di una battuta ironica da toscanaccio o di una frase improvvisata e buttata lì senza aver riflettuto sulle sue implicazioni. È singolare, insomma, che nella campagna elettorale per le Regionali nel Sud l’unico tema che non si affronta sia proprio il Sud. «Un Paese, due economie», ha scritto l’Economist. «La più grave e insoluta diversità dell’Italia rispetto a qualsiasi altra nazione europea», ha ricordato Prodi.



Eppure arriva il presidente del Consiglio, arrivano i suoi ministri, arrivano i massimi dirigenti del Pd e non ne parlano. Che sta succedendo? Secondo il mio parere siamo di fronte a un’ulteriore tappa di sganciamento della questione meridionale dalle responsabilità del governo nazionale e alla dimostrazione concreta che un certo regionalismo con la presunzione di autosufficienza può portare all’oscuramento o alla insignificanza ideale, culturale e politica del meridionalismo.



Il regionalismo meridionale senza sponda nazionale è destinato all’insuccesso. Qualunque sforzo per tirare fuori il Sud dall’attuale difficilissima situazione ha bisogno di anni, di una strategia condivisa, di massici investimenti, di una collaborazione quotidiana tra governo e regioni e tra regioni e regioni. C’è qualcuno che ne ha parlato? Che stia riflettendo su come avviare questa nuova stagione di collaborazione e di reciproci impegni?



Nessuna regione meridionale si salva da sola. La partita non si gioca solo a Napoli, a Bari o a Palermo, ma nel rapporto tra governo centrale e regioni meridionali (tutte, nessuna esclusa), nel rapporto tra le classi dirigenti nazionali e quelle locali. A 35 anni di distanza dalla loro nascita le Regioni si sono dimostrate in definitiva istituzioni sostanzialmente ininfluenti sull’economia, al Nord, al Centro e al Sud. Esse, tutt’al più, hanno accompagnato le tendenze economiche già in atto nei loro rispettivi territori ma non le hanno determinate.



È ovvio, però, che una cosa è essere «istituzioni di accompagnamento» nel Centro-Nord, altra cosa è esserlo nel Sud. Lì accompagni lo sviluppo, qui governi l’arretratezza. Insomma, se si sopprimessero le Regioni l’economia italiana non ne risentirebbe; però, al tempo stesso, non si migliorerebbe automaticamente la condizione economica del Sud. Le Regioni sicuramente non hanno migliorato il divario Nord-Sud, ma non lo hanno da sole peggiorato. Hanno solo fatto perdere unicità e forza alla questione meridionale. L’utilità delle Regioni si è palesata più nei servizi al cittadino che nell’economia.





Ed è indubbio che al divario economico si è aggiunto in questi anni un divario nell’efficienza dei servizi sanitari, sociali, culturali e nel sistema dei trasporti, che ha accentuato ancora di più la distanza del Sud con il resto del Paese. E se è giusto dire che il regionalismo italiano si è rivelato fattore di accentuazione degli squilibri più che tentativo di superarli, bisogna sempre ricordare che quelli economici sono dipesi in gran parte dalle scelte dei governi nazionali.



Capovolgere la situazione, mettendo sulle spalle di chi dovrà governare nel Sud anche il peso della ripresa economica è un’operazione non realistica, ingiusta e del tutto cinica. Questa strategia dà l’impressione, in sostanza, di un ulteriore presa di distanza dai problemi meridionali più che di un investimento su due sindaci, quali De Luca ed Emiliano.



Non si risponde ai problemi sollevati dall’Economist, da Prodi e da Visco con un «regionalismo municipale» che non mi sembra affatto all’altezza delle questioni che si hanno davanti in Campania e in Puglia, come in tutto il Sud. Certo, mettere in campo una strategia ambiziosa di riduzione dei divari economici tra due realtà distanti non è impresa facile, anzi è tra le più difficili di un programma radicalmente riformatore.



Ci vogliono molte risorse e molto tempo per vedere i risultati. La Cassa del Mezzogiorno fu avviata nel 1950 ma ci vollero almeno 10 anni per verificare i primi risultati di crescita economica e sociale. In Germania ci sono voluti 20 anni per ritenere avviate (ma non del tutto risolte) le questioni poste dall’unificazione, e tra queste la riduzione del divario economico tra Est ed Ovest.



Sono riforme che impegnano tutta una vita, non pochi anni. Il riformismo italiano, invece, sembra più propenso ad investimenti su tempi brevissimi, e soprattutto su questioni che non implichino grandi discussioni su risorse da accorpare, su tagli da effettuare, su revisioni di criteri usati nella ripartizione dei fondi.



Si tratta perciò di riformismo timorato, di coraggio prudente. E l’avvio a soluzione del divario tra aree territoriali diversamente sviluppate all’interno della stessa nazione è questione troppo seria, troppo grande, troppo lunga perché una generazione di leader mediatici se la carichi sulle spalle.



Ma io mi chiedo: avvertire la sfida della questione del divario italiano come difficilissima da intraprendere impone di per sé che non si debba fare nulla, nel frattempo, per attenuarne gli effetti? E addirittura, visto che si è deciso di non assumerla nel proprio orizzonte riformistico, inasprire le conseguenze sottraendo risorse a quella parte che ne ha più bisogno?



Che riformismo è quello che non solo decide di ignorare il Sud ma di farsi pagare dai fondi destinati ad esso le riforme? È avvenuto con il bonus occupazione e non è detto che non avvenga ancora per il futuro.
In genere il riformismo debole si trasforma in cinismo verso le questioni che non si ha avuto il coraggio di affrontare.