Mattarella, l'amico siciliano D'Antoni: «Lui grigio? Vi sorprenderà»

di Nando Santonastaso
Giovedì 29 Gennaio 2015, 23:47 - Ultimo agg. 23:56
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Tutti e due palermitani, uno di origini l’altro di adozione. In comune anche il nome, Sergio, ma soprattutto una passione per la politica maturata in momenti diversi e declinata poi nello stesso alveo ideologico. «Io e Sergio Mattarella? Amici da sempre» dice Sergio D’Antoni, nativo di Caltanissetta ma trasferitosi da piccolo nel capoluogo siciliano, ex leader nazionale della Cisl ed ex deputato Pd. Lui il candidato democratico al Colle lo conosce bene: «Dall’inizio degli anni ’70. Qualche anno più grande di me, io vicino per ragioni politiche al fratello Piersanti. Frequentavo la loro famiglia, parlavamo di tutto: a quell’epoca avevo appena iniziato il mio percorso all’interno della Cisl, Piersanti era già un punto di riferimento per la politica siciliana», ricorda D’Antoni.



Sergio Mattarella era distante dalla politica a quei tempi?

«Sì. Piersanti, moroteo doc, aveva una spiccata vocazione per la politica, Sergio no, era un docente universitario di diritto pubblico a Palermo, faceva l’avvocato, aveva interessi molto diversi. Ma quella fu una stagione importante per la politica isolana, la famosa primavera siciliana: quando Piersanti venne eletto presidente della Regione, io diventai segretario regionale della Cisl e alla guida del Pci siciliano c’era un certo Achille Occhetto. L’idea del compromesso storico maturò proprio allora, nella nostra terra».



Cambiò tutto con l’uccisione di Piersanti. Anche per Sergio Mattarella la vita non fu più la stessa.

«Proprio così. Sergio aveva sempre seguito da vicino il fratello, comizi elettorali compresi, mai assente nelle occasioni più importanti. Ma faceva un altro mestiere. Poi, il 6 gennaio 1980, la sua storia è cambiata. Volente o nolente, si rese conto che non poteva non accettare l’eredità politica del fratello ammazzato dalla mafia, che c’era un patrimonio di esperienze che rischiava di andare disperso. Si candidò al Parlamento e divenne deputato Dc nell’83 per la prima volta».



Ne avevate parlato insieme? Come maturò la sua scelta?

«Ne abbiamo discusso spesso. Fui tra quelli che lo incoraggiarono a continuare l’impegno politico del fratello. E questo nostro rapporto è continuato anche dopo, quando anch’io sono approdato a Roma, diventando segretario generale della Cisl. Ruoli diversi, autonomi ma tra di noi non sono mai mancati dialogo e rispetto. Siamo stati vicinissimi ad esempio nella stagione del Partito popolare: lui e Franco Marini, che mi aveva preceduto alla guida del sindacato, erano i miei punti di riferimento».



Fu De Mita a volerlo commissario in Sicilia.

«Sì, il rapporto con De Mita, segretario del partito e presidente del Consiglio, fu eccellente. L’allora segretario Dc diceva che ”Forlani, in confronto a Mattarella, è un movimentista” per sottolinearne la sobrietà e la freddezza».



A proposito di brillantezza: Sergio Mattarella appare per così dire un po’ grigio, poco incline ad esporsi in pubblico, molto riservato.

«Nient’affatto. Capisco che possa dare questa impressione ma ha molta più sostanza di quanto appaia. Non essendo un uomo di grande comunicazione, come si dice per i leader politici di oggi, subisce questa immagine. Ma lui è l’esatto contrario: ha idee chiare, valori precisi, si è sempre battuto per interessi generali, non ha mai piegato la schiena. E adesso più che di abilità comunicative c’è bisogno al Colle di un uomo di contenuti. Mattarella li ha».



Può aver pesato nel ”no” di Forza Italia la decisione di dimettersi per la legge Mammì che sicuramente non era penalizzante per il gruppo di Berlusconi?

«Mi auguro di no. Era ministro dell’Istruzione, lasciò per coerenza, una dote che gli è sempre appartenuta. Mi auguro che non sia quel precedente a motivare l’opposizione alla sua elezione. Sono passati tanti anni».



Il suo nome legato ad una legge elettorale che molti oggi rimpiangono.

«Vero, ma il nome Mattarella verrà ricordato sempre e comunque per quella stagione politica siciliana per tanti versi irripetibile. Prima Piersanti, poi lui. Certo, senza la morte del fratello probabilmente Sergio sarebbe rimasto nel mondo universitario: non gliel’ho mai chiesto direttamente ma la risposta sarebbe stata scontata. Piersanti no, era pupillo di Aldo Moro: se le pallottole non l’avessero fermato sarebbe diventato uno dei big della politica nazionale».



Moroteo anche Sergio?

«Sì, perché l’area di riferimento era comune. Quando fu ucciso Moro, Sergio come tanti altri - compreso il sottoscritto - si impegnò a fondo per tenere vivo il senso di quell’appartenenza, prima con De Mita segretario poi con Martinazzoli. La verità è che siamo rimasti morotei dentro».



Dalla Dc al Partito Popolare, fino al Pd: Mattarella convinto dell’approdo finale degli ex democristiani?

«Sì, soprattutto perché gli ex Ds si erano ormai resi conto che non potevano fare come Biancaneve e i sette nani, loro al centro e tutti noi a ruotare intorno. Mattarella è sempre stato consapevole che l’unificazione fosse inevitabile. Del resto il vero problema di questa svolta è sempre stato il metodo operativo, l’accelerazione impressa ad un certo punto, non la convergenza delle idee».



Dicono che non sia conosciuto all’estero, che abbia poca familiarità con la politica europea.

«Falso. Da ministro della Difesa è stato sempre a contatto con l’Europa, la Nato e gli altri apparati internazionali ricevendo consensi per il suo equilibrio politico. Altro che sconosciuto».



Difficile per un uomo schivo e riservato ricevere l’eredità di Napolitano?

«L’impegno di Napolitano è legato ad una fase istituzionale irripetibile: c’era un vuoto pericoloso due anni fa e Napolitano lo ha coperto con enorme impegno. Io mi auguro che non ci sia più bisogno di questa straordinarietà, che il nuovo Capo dello Stato sia il garante che la Costituzione prevede. Mattarella è l’uomo ideale perché ha tutti i requisiti per esserlo».



Un altro uomo del Sud in corsa per la massima carica dello Stato: che vuol dire?

«Che bisogna interrogarsi sul paradosso di un Mezzogiorno che da un lato può esprimere - mi auguro - le prime due cariche dello Stato e dall’altro non riesce a fare politica attiva con la sua classe dirigente. Da Berlusconi a Monti non si può certo dire che i governi abbiano brillato per iniziative e priorità filomeridionali: non è bastato Napolitano che pure ha fatto tantissimo per il Sud. Superare questa contraddizione è più che mai una necessità».