Non ci sono più i saraghi di una volta

di ​Luciano Pignataro
Mercoledì 26 Agosto 2015, 23:21 - Ultimo agg. 23:26
4 Minuti di Lettura
Allora è ormai certo: non ci sono più i saraghi di una volta: la denuncia dei pescatori, confortata dalle prime analisi scientifiche lo conferma: la carne è più gommosa, con i metodi tradizionali di cottura diventa quasi immangiabile. Del resto, diciamoci la verità, non ci sono neanche più le mezze stagioni e le vongole veraci (stroncate dalla normativa iperigienista europea), le seppie sono sparite mentre sono sempre più flebili le tracce di mazzoni, sbaraglioni e sciarrani.



Per non parlare di molluschi come le patelle reali, le capesante, le pinne, le lumachine di mare. E vogliamo parlare dei polli? Provate a prenderne uno, se lo trovate, che abbia camminato e beccato un po' nell'aia (non nell'Aia) e tutti si rifiuteranno di assaggiarlo perché troppo duro.



La verità è che gran parte di quello che mangiamo non è più come quello di una volta perché noi non siamo più quelli di una volta. Il rigore della miseria e della fame del Dopoguerra, come la stagionalità delle campagne, è stato sostituiti dalla possibilità, e dalla voglia, di avere tutto e subito, l'uva a maggio e le pesche a Natale. Persino la pastiera ormai c'è tutto l'anno!



In sintesi, siamo passati dalla carenza all’eccesso di calorie e quasi tutto quello che buttiamo in corpo è imbustato e preparato con prodotti di cui non sappiamo praticamente nulla. La grande industria ha vinto la sua battaglia negli Anni ’60 anche grazie a Carosello ed è ormai diventato istintivo per tutti affidarsi al nome di chi produce e non alla materia prima. Del resto, pensateci bene: ogni anno diminuisce la parte della popolazione svezzata senza omogeneizzati. Questo significa che sin da piccoli la grande industria allena il palato alla morbidezza e alla dolcezza ed è questo il motivo per cui le cose che piacciono ai più anziani sono evitate dai più giovani.



Forse è proprio questa la più grande differenza tra gli ultimi cinquant’anni e i precedenti tremila. Il cibo non è altro che lo specchio del nostro cambiamento.

Certo, ci sono sacche di resistenza, ma si tratta di fenomeni culturali e colturali ristretti, un rapporto con il cibo antico e più sano che si tramanda in cenacoli di appassionati e fedeli, un po’ come i testi latini si salvarono nelle biblioteche dei monasteri. Napoli può vantare molte eccezioni, tra cui la pizza. Ma anche qui l’attacco è massiccio: nel mirino è tutto quello che la caratterizza, dalla farina 00, esempio pregiato qualità industriale che il mondo ci invidia, alla cottura a legna, al lievito di birra, non meno naturale del tanto decantato lievito madre. La verità è che il modello di pizza napoletana non si può replicare a livello industriale mentre quello panoso e foccaccioso, oltre che pieno di formaggio, si può produrre in serie sempre uguale, magari con un pizzico di farina integrale usato come specchietto delle allodole.



In verità nel corso della storia ogni impero ha imposto il proprio modello alimentare come ben sappiamo a Napoli la cui tradizione gastronomica è al tempo stesso romana, araba, spagnola e francese, ma quello di cui ci nutriamo da una ventina di anni a questa parte è invece frutto del modello del capitalismo finanziario globale che è uguale in ogni parte del mondo perché non ha più i limiti di spazio e di tempo. Così noi mangiamo sushi e i giapponesi la pizza, ma in realtà nessuno a Napoli mangia vero sushi e nessuno a Tokyo vera pizza, bensì l’idea dell’uno e dell’altra adeguate alle esigenze produttive e commerciali.



Questo processo, proprio come l’immigrazione, è irreversibile perché il mare non si può fermare. Però può diventare una opportunità commerciale e produttiva se si guarda avanti, senza ideologia. Oggi una melanzana «tracciata» e senza chimica vale molto di più di una scatola di caviale o di foie gras. Questa verità non è ancora ben compresa al Sud perché abbiamo ancora questi prodotti sotto casa, la maggior parte non considera il fatto che oggi un piatto vegetale è molto più ricercato di uno con la carne o con il pesce. Dunque il passato non è un valore a cui guardare con nostalgia, ma come opportunità produttiva e commerciale.



Certo, resta il fatto che non ci sono più i saraghi di una volta. Però siamo sicuri che la continua ricerca di nuove tecniche di cottura che vede protagonista l’alta gastronomia di tutto il mondo potrà risolvere questo problema. Come quello dei polli allevati in modo antico da affrontare, magari, con la cottura lenta a bassa temperatura. Già, perché forse una via di uscita onorevole al cambiamento è proprio poter incrociare il passato e il futuro. Ossia una materia prima di qualità e la ricerca continua per trasformarla in grandi piatti. Vive di passatismo chi il passato lo ha vissuto e goduto, ma non si può pensare che i ventenni di oggi possano recuperare il piccolo mondo antico di quando su questa terra eravamo la metà. Sotto allora, a chi saprà affrontare i nuovi saraghi in cucina per regalarci un buon piatto.