Raid a Cagliari e Varese, calcio sotto choc

di Maurizio de Giovanni
Sabato 18 Aprile 2015, 22:53 - Ultimo agg. 23:20
4 Minuti di Lettura
E mentre siamo tutti concentrati con gli occhi sul pallone, per vedere dove decide di rotolare in questo finale di stagione, il calcio italiano rotola invece velocemente verso un’orribile morte. È singolare il destino dello sport più bello del mondo, sempre più al centro dell’attenzione di un pubblico vastissimo, sempre più padrone della televisione e dei giornali, cannibale indisturbato di ogni altro spettacolo, assassino di teatri e cinema rassegnati testimoni di uno spezzatino costruito ad arte affinché non esistano pomeriggi o serate privi delle ormai proverbiali telecronache.



E tuttavia vittima dell’espressione più evidente, clamorosa e impunita dei reati contemporanei perpetrati da una massa che, si dice per minimizzare, conta solo poche decine d’individui. Che peraltro nessuno mette nelle condizioni di non nuocere. Vorremmo andare con ordine, ma scopriamo dolorosamente che la teoria di avvenimenti di fatto non si è mai fermata e che quindi non si può trovare un’origine alla quale far risalire un inizio.



Potremmo quindi ragionare a partire dal sangue e dalla morte, dai colpi di pistola esplosi dall’assassino De Santis e dai cinquantadue giorni d’agonia di Ciro Esposito, conclusi con un «ti amo, mamma» mormorato a fior di labbra ad Antonella e riferito a tutti noi da questa donna minuta e coraggiosa. E proseguire col silenzio mostruoso di tutte le istituzioni, per carità solerti nell’esibire volti partecipi e rigati da false lacrime ma mute nel mostrare concreti segni della volontà di fare in modo che mai più avvenga qualcosa di simile.



Per cui alla depenalizzazione sportiva della discriminazione territoriale, pratica orribile nella quale si celano violenza estremista e intolleranza, liquidata invece come ”semplice sfottò” da giornalisti e commentatori ignoranti e da politici conniventi, ha fatto seguito un’imbarazzata serie di semplici sanzioni amministrative e di squalifiche di limitati e ulteriormente ridotti settori dello stadio, al fine di diminuire le necessarie perdite economiche delle società ostaggio.



Ma siccome lo spettacolo continua, e siamo tutti interessati a che non ci venga tolto il giocattolo preferito, nessuno dice niente; e dopo qualche mugugno siamo di nuovo tutti là, a sbavare a ridosso del rettangolo di gioco. È quindi normale che le curve, felici destinatarie di sostanziale impunità, si sentano forti e incrementino la loro aggressiva ottusità.



Per cui gli striscioni irridenti l’altrui dolore, con atrocità particolari come la foto stampata su stoffa della Milo che piange urlando il nome del figlio che è lo stesso nome del figlio di Antonella Leardi, sono stati seguiti da comunicati violentissimi contro lo stesso presidente della Roma, colpevole di aver tentato una tiepida presa di distanza della società e bollato di essere vigliacco e infame da chi vigliacco e infame si era dimostrato, evitando accuratamente nomi e cognomi per evitare di incorrere in reati specifici. Ma non è ancora abbastanza: perché la violenza è contagiosa, per le mani nascoste nella folla, per chi vuole esercitarla tranquillamente senza punizioni.



E così a Cagliari i tifosi (cosiddetti, ma nient’altro che delinquenti) fanno irruzione negli spogliatoi e minacciano e picchiano i calciatori, ragazzi spesso di età inferiore a vent’anni, rei di scarso rendimento. E a Varese, a distanza di un mare e di molti chilometri, un manipolo di commandos si introduce nello stadio e riduce il terreno di gioco a una trincea della prima guerra mondiale, sanzionando così la posizione di ultima in classifica della locale squadra. Risultato: partita rinviata.



Almeno questa settimana, avranno pensato, non si perderà. L’Italia porta avanti le proprie rappresentanti nelle coppe europee, pensando erroneamente che basti questo a fornire nuova e migliore visibilità al nostro calcio. Forse, pensiamo noi, meglio sarebbe non attirare l’attenzione su un luogo che di civile non ha che la parvenza.



Si deve dire chiaro a tutti che il calcio, oltre a essere l’oppio dei popoli, è anche il luogo dove chi vuole può lanciare un sasso, insultare qualcuno, fare apologia di reato, usare il coltello, picchiare la gente, sparare sui poliziotti: prego, signori, accomodatevi pure. Se avete qualche nascosta perversione, potrete tranquillamente esporla sugli spalti di uno stadio, senza paura e senza vergogna. In nome del dio denaro, troverete qualche presidente federale che vi difenderà.



All’indomani della tragedia di Ciro il presidente del Consiglio Renzi, presente allo stadio disse: «Non lascerò il calcio in mano a questa gente».
Passato un anno, la situazione è ulteriormente degenerata. Che vi dobbiamo dire: ci sarà stato di più importante di cui occuparsi, piuttosto che della salute delle famiglie che vorrebbero tanto andare allo stadio. E tornarne vive.