Uno spreco pagato dai contribuenti

di Vittorio Del Tufo
Sabato 22 Novembre 2014, 22:49 - Ultimo agg. 23:23
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C’è un solo modo per non sentire l’olezzo dei rifiuti: tapparsi il naso. E c’è un solo modo per non rendersi conto del disastro del ciclo di smaltimento in Campania: bendarsi gli occhi.

A furia di bendarci gli occhi e di tapparci il naso, abbiamo lasciato che sull’intero ciclo si concentrassero gli interessi più opachi e gli appetiti più famelici. Lo dimostra l’inchiesta di Daniela De Crescenzo sul business dei «viaggi della monnezza». Un fiume di soldi che abbiamo buttato al vento per non essere riusciti a dotarci di nuovi e moderni impianti di smaltimento.





Impianti mai realizzati, differenziata al palo, trasferimento della monnezza fuori regione: sul palcoscenico di questo disastro che si perpetua continuano ad agitarsi gli stessi oscuri demiurghi che lucrano affari dall’emergenza.



Grazie ai viaggi della spazzatura trecento milioni di euro sono già usciti dalle tasche dei contribuenti campani per finire in quelle dei broker e dei trasportatori. Cinque anni dopo la grande crisi, non solo l’inquinamento del territorio ma anche il rischio di infiltrazioni malavitose - molte delle imprese coinvolte sono state colpite da interdittiva antimafia - è rimasto intatto.



Attorno al mancato ciclo di smaltimento, una filiera che fa acqua da tutte le parti, si è strutturato e consolidato un reticolo di imprese poco trasparenti. Sempre le stesse: un oligopolio che ha fiutato da tempo il business del «trasporto rifiuti» e ci si è tuffato.



È lo stesso humus che ha reso possibile, negli anni più bui dell’emergenza, e grazie a un’interfaccia istituzionale disinteressata o ambigua, il fiorire di un’economia border line se non criminale, i cui frutti avvelenati continuano a crescere. E sui cui affari la magistratura indaga da tempo.



L’incapacità di governare il ciclo dei rifiuti è una colpa grave di cui si sono macchiati amministratori di ogni colore. Pesano come una zavorra gli errori del passato. Pesano la sottovalutazione dei rischi, la politica degli infiniti stoccaggi, i partiti trasversali del no, i veti incrociati che hanno impallinato nuovi e moderni impianti di termovalorizzazione.



Con il risultato, visibile a tutti, che in questo ginepraio di sordidi affari l’unica impresa sul territorio in grado di scongiurare una nuova emergenza è quell’inceneritore di Acerra contro il quale un certo ambientalismo vetero-ideologico continua a lanciare strali.



Ovviamente quell’impianto da solo non basta, non può bastare a smaltire tutti i rifiuti trattati negli impianti intermedi: ma la cecità delle istituzioni, nessuna esclusa, ha impedito che venissero realizzate altre strutture.



Lo hanno impedito le barricate ideologiche del Comune di Napoli, i cui rigurgiti ambientalisti fanno a cazzotti con l’immobilismo manifestato in tutti questi anni tanto nelle politiche di smaltimento quanto nel risanamento ambientale dei siti inquinati, a cominciare da quelli contaminati dall’amianto: mai proclami furono più stridenti con l’inconcludenza dell’azione amministrativa.



Lo ha impedito il tatticismo politico e l’esagerata prudenza della Regione, un prudenza indotta dal timore di perdere consenso nei territori.
E lo ha impedito la strumentalizzazione politica e ideologica delle pressioni di piazza. Una miscela esplosiva che ci fa tornare ogni volta al punto di partenza: un ciclo di smaltimento del tutto inadeguato, che rischia di incepparsi al minimo ostacolo e che ci costringe a dipendere da altre regioni e da altri Paesi, con somma gioia dei signori dei camion e dei ras dei rifiuti che lucrano affari sui nostri disastri.