Sarri contro Mancini: due stili, uno scudetto

di Mimmo Carratelli
Mercoledì 25 Novembre 2015, 18:06 - Ultimo agg. 24 Novembre, 23:40
4 Minuti di Lettura
Il giovin signore e l’operaio, verrebbe da dire a prima botta. Roberto Mancini, 51 anni, marchigiano di Jesi. Maurizio Sarri, 56, napoletano per nascita casuale e toscano per destinazione, genitori di Figline, il papà gruista all’Italsider, tre anni in via Silio Italico a Bagnoli quando nel 1959 nacque Maurizio. A Napoli era già pronto lo Stadio del sole, poi dedicato a san Paolo; Sergio Bruni cantava «Marenarella» per la Piedigrotta. Mancini con sarto napoletano, Sarri ai grandi magazzini. Il primo col ciuffo ammiccante e il faccino massaggiato; l’altro col testone, capelli rasati non proprio alla moda, grande fronte, grandi occhiali, grande pelle ruvida.



Roberto parla con voce soffusa, da abat-jour. Maurizio ha la voce gradevolmente robusta. Cinque anni di differenza tra i due. L’uno è Menelao, l’altro è Agamennone. Mancini è stato un talento del calcio italiano, Sarri un difensore roccioso con poco talento nella periferia del pallone. Il primo nella grande Sampdoria, favoloso gemello di Vialli; il secondo a tirar calci nel Figline, ma, accidenti, il club della Valdarno per cederlo a 19 anni lo valutò 50 milioni di lire: una Fiat 127 costava quattro milioni, un appartamento dodici. In quello stesso anno, Mancini giocava nelle giovanili del Bologna e, tre anni dopo, il presidente della Samp Mantovani lo pagò 4 miliardi.



Quando Sarri a 31 anni cominciò, in provincia di Arezzo, ad allenare una squadra, il sampdoriano Mancini vinse lo scudetto. E quando Sarri allenò per la prima volta in B (Pescara), Mancini al secondo anno sulla panchina dell’Inter vinse il campionato (ne avrebbe vinti altri due prima di sbarcare in Inghilterra trionfando in Premier League col Manchester City).

Due strade lontane e neanche parallele, Roberto con 14 campionati di vertice, Maurizio al suo primo campionato di serie A, ed ora eccoli di fronte, sempre un po’ avanti Mancini, ma di soli due punti sul palcoscenico dove Sarri s’avanza e non canta “stasera miezo a st’uommene aligante abballa un contadino zappatore”, perché gli starebbe bene contadino e zappatore, ma ad “abballare” non ci sta.

È l’Inter che dovrà ballare.



Perché con Maurizio Sarri a Castelvolturno si sta verificando a Napoli una storia di ordinaria follia, per citare Bukowski che Sarri ama leggere, la storia di una squadra così bene organizzata ma che nessuno, dopo Maradona, pensava potesse giocare per lo scudetto. Perciò stiamo a questa ordinaria follia, ordinaria perché il lavoro paga sempre, come dice Sarri, follia perché ogni sogno a Napoli è follia, come ben sappiamo, ed eccolo il Napoli al centro del villaggio, come direbbe Garcia, dove la chiesa giallorossa ha qualche crepa, dove non osano più le aquile laziali, sono scomparse le zebre e spuntano le viole, e proprio l’Inter di Mancini con tredici formazioni diverse in tredici giornate, più sei diversi moduli di gioco, e sette 1-0 di stenti fortunati, è davanti a tutti con i soldi di un miliardario indonesiano che pagherà il giovin signore delle panchine col ciuffo suggestivo 21 milioni di euro in tre anni. A Milano, la follia è sempre straordinaria.



Sarri, ancora stordito dallo straripante abbraccio di Lorenzo Insigne al Bentegodi (meraviglia toscana in una situazione di anema e core), apparirà con la tuta del suo milione e mezzo più bonus, rinnovabili e ritoccabili l’anno prossimo, bestemmia a parte, e opporrà al bel Roberto, nato con la camicia e oggi con molte più camicie in guardaroba, la sua bella natura di metalmeccanico del pallone, la gavetta di 25 anni al tornio, alle frese e ai trapani del calcio minore, una grande esperienza da maestro di strada fra calciatori d’ogni tipo e probabilità da venirne fuori con un bagaglio tecnico e umano straordinario che nulla potrà più sorprenderlo, condizionarlo e spaventarlo perché il maestro di strada sa ormai come arrivare al cuore bambino dei campioni e delle comparse tirandone fuori il massimo.



Forse, e senza forse, è il lavoro mancato a Mancini che Roberto sostituisce con una spiccata intelligenza calcistica, più assemblatore di uomini che insegnante di alunni del pallone e, a suo modo, giovane despota capace di incantare petrolieri italiani e turchi ed emiri di Abu Dhabi proponendogli i giocatori da acquistare e quelli li acquistano. Non si vince con quel che passa il convento e Mancini non è un frate trappista. Il metalmeccanico senza pretese lavora con quello che ha avendo la determinazione, l’esperienza e la capacità di convincimento per trasformare un diamante grezzo in una pietra preziosa.

Una sola cosa unisce il giovin signore e l’operaio. Il drone. L’arma volante e segreta usata da entrambi per scoprire i segreti, i pregi, i difetti, le lacune e le correzioni dei movimenti in campo. In questo sono pari. Poi saranno i giocatori a sparigliarli e ad eleggere il mister di lunedì sera.