Se il premier gioca la parte del leone

di Massimo Adinolfi
Giovedì 29 Gennaio 2015, 23:43 - Ultimo agg. 23:56
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Nel pomeriggio di ieri, quando era ormai ufficiale l’intenzione di Matteo Renzi, corroborata dal voto unanime del Pd, di puntare sul giudice costituzionale a partire dalla quarta votazione – quella che richiede solo la maggioranza assoluta – Silvio Berlusconi ha telefonato al candidato del partito democratico per spiegare il senso della sua contrarietà: non al nome, ha detto, ma al metodo con il quale si è arrivati alla sua indicazione. Quel metodo, infatti, non sta dentro il perimetro del patto del Nazareno. Sembra anzi rivolto espressamente contro l’accordo con il leader di Forza Italia che ha fatto da sponda ai primi mesi del governo Renzi. Da ieri, quella sponda non c’è più.



Che il centrodestra non avrebbe votato Mattarella era più che prevedibile. Era quasi una certezza. Mattarella proviene infatti dalle fila della sinistra democristiana, cioè di quel pezzo di prima Repubblica con cui Berlusconi non ha mai avuto buoni rapporti, ed è stato nel ’90 tra i ministri dimessisi per protesta contro la legge Mammì, che spianò la strada alle televisioni del Cavaliere. Come se non bastasse, è stato anche, in anni successivi, ostile all’ingresso di Forza Italia nel partito popolare europeo: un «incubo irrazionale», ebbe a definirlo. Che dunque Renzi chieda ora a Berlusconi di votare Mattarella può avere un solo significato: che l’intesa col Cavaliere è arrivata, per lui, al capolinea.



Si può provare a capire perché: il Senato ha approvato l’Italicum. Manca ancora un passaggio parlamentare, ma alla Camera Renzi non ha bisogno dei voti di Forza Italia. Le riforme costituzionali (il Senato non elettivo) necessitano di un percorso più lungo, e da domani inevitabilmente più accidentato, ma non sono altrettanto decisive: non modificano il sistema politico tanto quanto la nuova legge elettorale. Il frutto più grosso del Patto è stato dunque già raccolto, grazie al premio di lista che conferisce al primo partito - cioè, al Pd – certezza di governare. Il Patto può rivelare così la sua natura leonina: la legge lo vieta, vieta cioè patti che vanno a vantaggio esclusivo di uno solo dei contraenti, ma la politica è un’altra cosa, segue altri percorsi. E lascia Berlusconi con un pugno di mosche in mano, mentre Renzi incassa prima la legge elettorale e, poi, un Presidente della Repubblica che è, ad un tempo: gradito al suo partito, che si ricompatta sul suo nome; gradito all’opinione pubblica della sinistra, che ne apprezza l’integrità morale; e dal profilo internazionale non particolarmente spiccato, e perciò non ingombrante per il Presidente del Consiglio.



Nel prendere questa strada, Renzi ha tenuto probabilmente conto anche di qualche altro elemento, emerso nel frattempo. Alcune clausole del Patto cominciavano a rivelarsi politicamente troppo onerose per lui: fosse o no contenuta nei segreti del Nazareno, l’approvazione, a dicembre, della norma fiscale che avrebbe estinto il reato per il quale Berlusconi è stato condannato ha messo per la prima volta in difficoltà il Presidente del Consiglio, che ha dovuto perciò rinviarla. Da domani, con la rottura del Patto, può anche sconfessarla del tutto. E cercare di recuperare quei consensi persi nelle ultime settimane, intercettando il vento che ha soffiato in Grecia, domenica scorsa, con la vittoria della sinistra di Tsipras. In Italia non c’è ancora nulla di paragonabile alla forza politica guidata dal nuovo, giovane leader greco. Ma ci sono i malumori della minoranza interna, c’è l’esigenza di farsi anche in Europa attori del cambiamento, e c’è soprattutto un voto grillino che può essere prosciugato, approfittando delle difficoltà strategiche in cui si dibatte il Movimento Cinque stelle, in costante emorragia di deputati.



Il calcolo è semplice: se Berlusconi ha dato quel che poteva dare, è ora la volta di recuperare i consensi rifugiatisi dalle parti di Grillo soprattutto per la mancanza di credibilità dell’offerta politica tradizionale. Ora però quella credibilità può essere riconquistata a colpi di risultati: Renzi porta in dote la nuova legge elettorale, e un pacchetto di riforme, a cominciare dal Jobs Act, che potrebbe dare i primi risultati nei prossimi mesi, approfittando anche dei timidi segnali di ripresa che cominciano a registrarsi. Infine, c’è il colpo da ko al Cavaliere, mai così in difficoltà come in queste giornate. Nel 2013, le elezioni del Quirinale misero sottosopra il partito democratico, spingendo Bersani alle dimissioni. Due anni dopo, possono ancora essere uno spartiacque decisivo per la politica italiana, ma la parte del soccombente tocca stavolta al Cavaliere, mentre Renzi si prende la parte del leone.