Veronesi: «Contro il cancro una regia unica tra gli ospedali»

di Maria Pirro
Lunedì 30 Marzo 2015, 23:36 - Ultimo agg. 23:44
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«Come regola noi operiamo entro un mese e se l’attesa si preannuncia più lunga dirottiamo la paziente in un altro ospedale». A intervenire è Umberto Veronesi, oncologo di fama ed ex ministro della salute, a proposito delle liste per gli interventi all’istituto Pascale di Napoli, dove invece si aspetta anche più di tre mesi per l’operazione chirurgica al seno. «Se il nodulo è molto piccolo, meno di un centimetro, la crescita è lenta e una attesa anche di 3 mesi non penso che cambi la prognosi» puntualizza Veronesi, che però aggiunge: la cabina di regia per la cura del cancro, non ancora operativa in Campania, «è molto importante e dovrebbe essere il primo obiettivo da raggiungere».

Quando si parla di diagnosi precoce?

«Se il tumore del seno è individuato quando è impalpabile e rivelato solo dagli esami strumentali (mammografia o ecografia), oppure quando la massa ha già la consistenza di un piccolo nodulo di dimensioni al di sotto di un centimetro di diametro».

Perché è decisiva?

«Più il tumore è piccolo, maggiori sono le sue possibilità di guarigione. Lo abbiamo dimostrato in uno studio all’Istituto europeo di oncologia: su 200 casi in cui il tumore è stato riscontrato solo con la mammografia, ecografia o risonanza magnetica, a 10 anni di distanza abbiamo avuto una guarigione del 98,5 per cento. Inoltre, un tumore iniziale può essere trattato con interventi locali mininvasivi che rispettano l’integrità del corpo femminile, con un effetto positivo anche sulla psiche. Allo Ieo sempre più interventi vengono effettuati in day surgery: una donna riceve un trattamento oncologico completo, anche con la radioterapia intraoperatoria se necessaria, e la sera può tornare a casa da i suoi familiari».

Quanto è importante che l’operazione avvenga con tempestività?

«La chirurgia rimane la terapia d’elezione. La tempestività è importante in quanto un nodulo di piccole dimensioni ha minori probabilità di metastatizzare, ciò di migrare ad altri organi. Conta molto anche l’aspetto psicologico: quando una donna sa di avere un tumore il suo primo e unico pensiero è toglierlo».

Tra la diagnosi e l'intervento, quanto tempo si può aspettare?

«Ho detto qual è la regola allo Ieo. Inoltre è opportuno avere subito - tramite esame bioptico non invasivo - la valutazione istologica del tumore: se è a basso indice proliferativo, l’attesa può essere prolungata senza rischi, mentre l’opposto avviene per i casi ad alto indice proliferativo».

L’operazione nei «tempi giusti» basta a guarire?

«Certamente è importante, ma lo è anche la biologia del tumore. Non esiste una sola forma di cancro mammario, ma tante e diverse fra loro, ognuna ha una sua evoluzione e dunque richiede una precisa terapia».

Come aumentano i rischi in base allo stadio del cancro?

«Aumentano proporzionalmente. Nei casi non aggressivi e iniziali (sotto il centimetro e mezzo) otteniamo una guarigione nel 90 per cento dei casi; se il tumore è più attivo e con dimensione intorno a 2 centimetri arriviamo all’80 per cento, mentre si scende sotto 80 per cento nei tumori più estesi».

Come si modifica il tumore?

«Ci sono tanti tipi di tumore o ciascuno ha un suo modello di evoluzione. Il principio è però per tutte le forme: non lasciare al cancro il tempo di crescere e diffondersi al resto dell’organismo. In realtà è difficile fare discorsi generali e ogni donna dovrebbe essere valutata in base alla sua situazione clinica e biologica. Per questo sono nate le prescrizioni con i “bollini” per le urgenze».

Può spiegare altri pericoli maggiori dovuti all’attesa: comporta più cicli di chemio o radioterapia?

«Dipende dal singolo caso. In generale, si può dire che la chirurgia è più invasiva, associata a radioterapia e può essere necessaria più chemioterapia».

In che modo l'ansia dovuta all'attesa può incidere sul percorso di cura?

«L’aspetto psicologico è fondamentale in tutto il percorso verso la guarigione e deve essere tenuto in considerazione non solo nella fase di attesa dell’operazione, ma anche durante e dopo il ricovero in ospedale».

Dunque, cosa consiglia alle donne napoletane a cui viene detto di aspettare tre mesi?

«Se è il caso di un tumore molto piccolo e non aggressivo biologicamente si può anche aspettare, ma in tutti gli altri casi è ragionevole indirizzarsi a un altro ospedale. Nel sud Italia, e a Napoli stessa, esistono eccellenti ospedali in grado di curare efficacemente ogni tipo di tumore».

Quali parametri di sicurezza verificare per scegliere una struttura alternativa sicura?

«È buona regola affidarsi a un centro specializzato. Oggi ci sono anche parametri europei che definiscono le cosiddette “Breast units”, cioè reparti che hanno tutte le caratteristiche riconosciute come requisiti necessari per poter offrire una cura adeguata».

Un paradosso è che il numero limitato di sedute operatorie in tutto l'istituto Pascale è dovuto alla carenza di infermieri: nel blocco chirurgico ne mancano 9 su 27. Solo 9 operatori in più potrebbero consentire di operare mattina e pomeriggio. Da ex ministro come giudica questa “rigidità” nel sistema? Pensa si possa risolvere? «Purtroppo la rigidità è un problema della sanità pubblica quindi la Regione, che è responsabile della salute dei suoi cittadini, deve poter agire in modo autoritario. Inoltre in Lombardia è nato anche il modello del “privato accreditato”, di regola non profit, vale a dire una rete di ospedali di diritto privato che erogano prestazioni in convenzione con la sanità pubblica».

Ritiene che il caso Napoli sia isolato?

«Non credo proprio. Il problema delle liste d’attesa si pone per tutte le strutture d’eccellenza del Paese perché (per fortuna) le persone oggi sono informate e hanno capito l’importanza di affidarsi a un centro specializzato».

I tempi di attesa ripropongono l'attenzione su una sanità a due velocità. Dal Sud le donne ammalate scappano verso il Nord, quando possono. La distanza geografica tra casa e ospedale può creare ulteriori disagi nella fase post-operatoria. Come fermare i viaggi della speranza?

«Ripeto, nel sud esistono centri eccellenti e molto spesso non c’è ragione di fare lunghi viaggi. Inoltre anche nel Nord esistono molte sacche di arretratezza sanitaria. In linea di principio, tuttavia, non vedo la migrazione sanitaria come un male. Presto inizierà con intensità anche fra un Paese e l’altro dell’Europa».

Qual è allora lo schema ideale?

«Avere centri diagnostici sparsi capillarmente sul territorio, strutture specialistiche altamente specializzate in chirurgia, radioterapia e altre terapie d’avanguardia distribuite regionalmente, e controlli e follow-up sul territorio».

Ma la sanità è diventata anche un lusso: i più ricchi si rivolgono alle cliniche private e anche agli stessi medici in intramoenia (la sanità a pagamento in ospedale) per evitare le più lunghe liste di attesa. Cosa ne pensa di questo doppio binario? Comporta rischi ulteriori?

«È giusto che chi può permetterselo paghi cure e ricoveri. D’altronde, se qualcuno deve pagare, è sacrosanto che sia la fascia più abbiente a farlo. Questo non incide negativamente sulle prestazioni in regime pubblico, purché l’attività privata sia svolta, appunto, nella modalità intramoenia. È importante che il medico lavori in ospedale a tempo pieno».

L'importanza di una chirurgia in tempi rapidi vale anche per le altre neoplasie? In che misura?

«Ogni persona malata è un caso a sé. Se vogliamo a tutti i costi una regola d’oro, però, possiamo dire che anticipare i tempi è sempre positivo in oncologia, soprattutto nella diagnosi ma anche nella cura».