Il sorriso della famiglia Kababji, dalla Siria a Ischia attraverso i corridoi umanitari

La famiglia di rifugiati siriani accolti ad Ischia con don Pasquale Trani e il vescovo, monsignor Pietro Lagnese
La famiglia di rifugiati siriani accolti ad Ischia con don Pasquale Trani e il vescovo, monsignor Pietro Lagnese
di Donatella Trotta
Domenica 19 Giugno 2016, 12:00 - Ultimo agg. 20 Giugno, 13:56
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Nei loro sorrisi stanchi la malinconia si stempera nel sollievo. E nei loro occhi, che hanno visto un dolore infinito, la luce della speranza balugina e sembra prevalere, ora, sul buio dell’orrore che si sono lasciati alle spalle. Insieme. Adib Kababji, la moglie Feryal e i loro tre figli Yaacoub, Rawaa e Marline - un fratello e due sorelle tutti sopra i vent’anni - sono una famiglia siriana, di fede cattolica e di lingua araba, in fuga da Al Hasaka, una delle città più piagate dalla guerra civile. Hanno perso tutto, lasciando anche la precarietà di un campo profughi libanese dove hanno vissuto negli ultimi tre anni, per sfuggire alle persecuzioni dei cristiani e ai conflitti sanguinosi che lacerano la loro terra.
 
Ma da qualche giorno sono approdati a Ischia, dopo essere atterrati giovedì scorso a Fiumicino con lo stesso volo che ha portato in Italia altri 81 profughi, grazie al progetto pilota dei corridoi umanitari: abbracciato in pieno dalla diocesi ischitana, guidata da monsignor Pietro Lagnese. Che ha interpretato, così, alla lettera l’auspicio di papa Francesco di una chiesa accogliente, in uscita, “ospedale da campo” per le ferite dell’umanità dove la misericordia non viene soltanto predicata, bensì praticata concretamente, attraverso piccoli grandi gesti quotidiani.
 
La storia della famiglia Kababji – un’odissea a lieto fine, grazie alla solidarietà attiva di una comunità isolana civilmente impegnata - ne è un esempio eloquente. La Caritas diocesana, con il centro di accoglienza «Giovanni Paolo II» di Forio, ha coinvolto le famiglie del gruppo affido della pastorale familiare e le due comunità parrocchiali del Buon Pastore e di Ischia Ponte, per gestire in prima persona la sistemazione di Adib, della moglie e dei figli che sono stati festosamente accolti dal calore di una fitta rete di volontari. C’è chi ha ripulito l’appartamento diocesano dietro la chiesa del Buon Pastore che ospita la famiglia, chi si occupa di fornire pasti caldi fin quando non si riuscirà a trovare un'occupazione che la renda autonoma, e chi intanto si presta come mediatore linguistico dall’arabo e dall’inglese in attesa che, sempre grazie all’aiuto di altri volontari, i Kababji imparino l’italiano integrandosi meglio nella comunità locale.
 
Proprio all’indomani dell’assurdo assassinio-martirio in Gran Bretagna di Jo Cox - la brillante deputata inglese anti-Brexit, giovane donna e madre di due bambini impegnata nella causa dei diritti civili -, e alla vigilia della Giornata mondiale del Rifugiato, l’esperienza di accoglienza dei profughi siriani ad Ischia sembra allora una risposta tanto preziosa quanto necessaria all’odio dilagante ovunque, con un’intolleranza che genera mostri. E mostruosità. Loro intanto ringraziano, con i loro mesti sorrisi, nell’inatteso Eden conquistato, forse ancora increduli della svolta che non soltanto gli ha salvato la vita, ma che ha anche dischiuso ai cinque siriani la possibilità di un futuro vivibile, “sostenibile”, rispetto all’insostenibile destino di tanti altri, parenti e amici, che non ce l’hanno fatta: sia in Siria, sia nei disperati “viaggi della speranza” sui barconi della morte, che hanno reso il Mediterraneo una tomba d’acqua, il deserto africano un inferno insuperabile e i Balcani una frontiera di nuove esclusioni.
 
«La diocesi ischitana non può permettersi di stare lì a guardare. Non vuole farlo», sottolinea monsignor Pietro Lagnese, con don Pasquale Trani in prima linea nell’impegno per costruire sull’isola verde una cultura di inclusività verso le persone più vulnerabili e in difficoltà. Il caso dei profughi siriani, che – anche dopo il gesto del Papa a Lesbo di accogliere a Roma tre famiglie di rifugiati - si aggiunge agli altri 200 e più già arrivati in Italia (in Toscana, Lazio, Piemonte, Liguria, Lombardia, Puglia, Campania e nella Repubblica di San Marino), testimonia la validità del progetto dei corridoi umanitari: una strada inizialmente sperimentale che sta diventando soluzione concreta e replicabile in altri Paesi oltre l’Italia, per consentire a persone in fuga dalla guerra, vittime di persecuzioni, torture e violenze, in condizioni di estrema vulnerabilità (famiglie con bambini, donne sole, anziani, malati, creature con disabilità) di giungere in sicurezza e legalmente in luoghi di accoglienza dove poter ricominciare a vivere con dignità.
 
Il progetto dei corridoi umanitari, primo di questo genere in Europa con il criterio di tutelare la vulnerabilità umana, è infatti nato da un Protocollo d’intesa sottoscritto il 15 dicembre scorso dal Ministero Affari esteri e della Cooperazione internazionale (direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie), dal ministero dell’Interno (Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione), dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e dalla Tavola Valdese: frutto significativo, fra il resto, non soltanto di una sinergia inter-istituzionale, quanto di una collaborazione ecumenica tra cristiani cattolici e protestanti.
 
Non solo. Fatto non irrilevante, dati i tempi di crisi, l’iniziativa è totalmente autofinanziata dalle organizzazioni che l’hanno promossa (anche grazie ai fondi dell’8 per mille della Chiesa Valdese ed altri finanziamenti umanitari), senza pesare in alcun modo sulle casse dello Stato anche nei successivi progetti di integrazione dei rifugiati. Tra gli obiettivi del progetto, oltre a quello prioritario di salvare vite umane sottraendole fra il resto allo sfruttamento di cinici trafficanti di uomini, anche quello di garantire e favorire ingressi legali in territorio italiano con visti umanitari (con tutti i debiti controlli), e la possibilità di presentare, in un secondo momento, domanda di asilo. Un modo intelligente, oltre che misericordioso, di consentire così, nel giro di due anni, il previsto arrivo nel nostro Paese di mille profughi da Siria, Libano, Marocco ed Etiopia.
 
Un’eutopia possibile, insomma, proprio come quegli apparentemente impossibili accordi di pace in Mozambico che invece, appunto grazie alla paziente e tenace mediazione della Comunità di Sant’Egidio, andarono in porto, il 4 ottobre 1992. Perché il coraggio di essere umani - coniugando solidarietà e sicurezza - in fondo richiede solo un minimo, ragionevole buon senso. Non a caso, martedì 21 giugno l’Italia presenterà la sua esperienza “modello” di soluzione della crisi dei rifugiati all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Perché dalle chiacchiere si passi ai fatti, dalle polemiche (sterili e strumentali) alle azioni concrete; e dallo “sport” della delega-scarica-barile all’assunzione di (cor)responsabilità, che ci riguarda tutti – indistintamente – da vicino. Come immaginò efficacemente, già più di dieci anni fa, Jane Teller in un potentissimo libriccino didattico, tradotto dal danese da Maria Valeria D’Avino, che abbiamo recensito in questa rubrica: Immagina di essere in guerra (Feltrinelli 2014). Ovvero, prova per un attimo a metterti nei panni degli altri, ribaltando il tuo sguardo e capovolgendo il mondo sinora conosciuto. L’effetto, garantito, è deflagrante. Un esercizio utile di sensibilizzazione.
 
 





 
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