Cesarano, altro che paranza dei bambini

Cesarano, altro che paranza dei bambini
di Isaia Sales
Martedì 27 Settembre 2016, 09:13 - Ultimo agg. 28 Settembre, 08:57
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Genny Cesarano non era un camorrista, non era amico di camorristi, né un loro fiancheggiatore. Non era un bullo, non era un teppista, non era un balordo.

Non era un membro di una baby-gang, né tantomeno un tifoso violento del Napoli. Era un napoletano dei quartieri che si godeva la frescura della notte nella piazza principale del rione Sanità il 6 settembre del 2015, come in quello stesso momento stavano facendo altri suoi coetanei in una piazza di Firenze, di Roma o di Milano. Stava lì inconsapevole, tragico testimone del diritto alla normalità di un giovanissimo figlio della città, che non deve maledire il mondo se il caldo ti fa restare in strada alle quattro di mattina mentre altri tuoi coetanei sparano all’impazzata al posto di godersela. È stato vittima di una “stesa”, come fin da subito avevano indicato i suoi familiari, i suoi amici, gli altri che lo conoscevano, e come nell’omelia avevano gridato i preti “missionari” nella chiesa della Sanità. 
«Ucciso per sbaglio? Questa definizione è falsa. Genny Cesarano era un ragazzo e stava al posto giusto al momento giusto. Ucciso per il diritto di stare lì e a quell’ora. Ucciso per il diritto di tutti i napoletani di stare lì e a quell’ora». Sto usando, adattandole, le stesse parole scolpite sulla pagina da Erri De Luca per ricordare Annalisa Durante, un’altra giovanissima «martire del diritto a stare in strada», a vivere la città a tutte le ore del giorno e della notte, un’altra vittima «che si era messa con il suo sorriso in mezzo ai proiettili offrendo al bersaglio i suoi quattordici anni». 

Non ho trovato frasi più efficaci di queste per commentare le ultime notizie sulle cause della morte di Genny Cesarano, che non sono riconducibili a niente di accidentale, a niente di fortuito, ma sono solo la voluta conseguenza dell’unica tecnica militare (la “stesa”) che colpisce innanzitutto chi non c’entra niente con la guerra dichiarata ai propri nemici. Come se le guerre vere si vincessero con le rappresaglie verso chi non è parte di nessuno degli eserciti in campo, come se il comando spettasse solo a chi è in grado di fare vittime e di spaventare gli abitanti del quartiere dove si pretende di comandare. 

Carlo Lo Russo ha confessato. Fu lui ad ordinare la “stesa” a quell’ora della notte del 6 settembre, dopo che la notte precedente Pietro Esposito (capo clan della Sanità) aveva mandato i suoi scagnozzi a sparare contro la casa in cui a Miano era andato a vivere il capo del clan dei «capitoni», dopo la scarcerazione dei giorni precedenti. Il messaggio era stato esplicito: «Non ti illudere di tornare a comandare; qui oggi comando io». La risposta di Lo Russo era stata immediata: una «stesa» nella zona controllata da Esposito. E Gerry Cesarano si era trovato al centro di una storia che non lo riguardava affatto, in un frangente nel quale i vari clan per scambiarsi messaggi di guerra debbono impaurire tutti gli abitanti di un quartiere, come se tutti i cittadini non criminali fossero gogoliane «anime morte» indissolubilmente legate alla loro concezione della proprietà. Anche per questi aspetti continuo a pensare che i mafiosi, i camorristi e gli ‘ndranghetisti sono l’ultima espressione di una concezione feudale del potere.
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