Io con il burkini in spiaggia:
mi sono sentita come a casa

Io con il burkini in spiaggia: mi sono sentita come a casa
di Raffaella R. Ferré
Domenica 28 Agosto 2016, 09:30 - Ultimo agg. 29 Agosto, 19:21
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Cari napoletani, confesso: vi ho detto una bugia. Per completezza d’informazione devo dire che voi mi avete creduta. E in virtù di quello che vi dicevano il mio aspetto, i miei occhi e anche le mie parole, mi avete protetto anche se, adesso posso dirlo, non ne avevo bisogno. 

È successo questo: ho comprato un burkini, l’ho indossato e sono uscita, confondendomi a voi sul lungomare Caracciolo. Per due chilometri, sotto trentatré gradi di temperatura, tra turisti e bagnanti, facendomi largo tra la folla che si accalcava sotto l’hotel Vesuvio alla ricerca del fantasma di Edinson Cavani e i camioncini dei tarallari, dalla Rotonda Diaz a Castel dell’Ovo a via Nazario Sauro, mi avete guardato, scrutato, parlato. E grazie a voi questo articolo racconta oggi una storia diversa da quella che abbiamo sentito finora a proposito di fede, tolleranza, paura del diverso e civiltà.

Da quando si è cominciato a parlare del burkini – al di là di facili ironie date dall’assonanza dialettale, si tratta del costume da bagno integrale per donne musulmane - ho preso a cercarlo nei negozietti a ridosso della stazione centrale, senza risultati. Quindi ho ripiegato sull’acquisto online aggiungendomi al 40% di persone non musulmane che, per un motivo o l’altro, compra questo indumento. Una settimana e circa 40 euro dopo, ecco qui il mio pacco: è arrivato in concomitanza con l’ulteriore polemica data dal divieto di indossarlo su alcune spiagge francesi poi ribaltato dal Consiglio di Stato transalpino. Ma la prima cosa che mi viene in mente indossando il burkini non sono le boutade, i discorsi sulla libertà delle donne o la paura, no. La prima cosa è un ricordo d’infanzia: ad una recita scolastica, la nonna di una compagna di classe si presentò indossando un abito devozionale ad un certo santo a cui aveva fatto voto. Estremamente accollata e colorata, la sua mise attirò l’attenzione di chiunque e ben presto lo spettacolo che tutti ci trovammo a guardare non era quello sul palco, con gli infanti pronti a canticchiare a comando, ma quello in sala: una donna con un cuore di Gesù d’argento in petto, una sorta di kimono rosso fuoco bordato d’oro su cui spuntava un collettone di pizzo e i suoi piedi, scalzi e sporchi.

Il mio burkini, invece, è nero e fucsia, dello stesso tessuto di un costume - di quelli buoni, per intenderci - ed è composto da un pantalone tipo leggins, una casacca a maniche lunghe e un cappuccio. Se non fosse per quest’ultimo, assomiglierebbe ad un completo optical anni Sessanta estremamente stiloso. Il copricapo, invece, lo fa assomigliare ad una muta da sub molto frivola. Non è scomodo – ci tengo a dirlo –, non ha né i ganci né le stringhe che immaginavo e ha le coppe rinforzate: per capirci, e parlo alle signore in particolare, dimenticate pure quella cosa di doversi riaggiustare il reggiseno uscendo dall’acqua se hai una taglia un po’ abbondante. Avendo la pelle molto chiara sono abbastanza abituata a restare vestita in spiaggia per scongiurare il rischio di eritemi e scottature e posso dire con contezza che il burkini non ostacola i movimenti più di un kaftano o di una qualunque camicia di lino con cui sono stata destinata a fare il bagno in certi momenti della mia vita. Ad essere sincera, indossandolo non ho incontrato neppure il problema della nonna della mia amichetta d’infanzia e cioè quello di attirare commenti stupidi.
 

 

Il primo a rivolgermi la parola, ad esempio, è un uomo che si ferma a guardarmi mentre io guardo il mare davanti a Castel dell’Ovo: come tanti sta per scavalcare il muretto e prendere posto sugli scogli. È un attimo e capisce che voglio fare anch’io la stessa cosa quindi mi dà una mano e seppure mi rivolgo a lui in francese e lui mi risponde in un napoletano a cui sono state preventivamente tagliate o allungate tutte le finali, eccomi a far conversazione mentre prendo il sole. Non una parola sul mio abbigliamento, non una battuta, una risata protetta dalla mia presunta incapacità di capire, anzi: passano pochi minuti e l’uomo mi spiega che posso stare tranquilla. «No racìsm a Napoli. A Torino o Milano, a Napoli no. Tu tranquilla, ci sono io», mi fa, portandosi la mano al petto. Poi consiglia di andare in spiaggia per stare più comodi e si offre anche di accompagnarmi.

Rifiuto il suo invito e lui non insiste, ma tengo in conto il suggerimento: Mappatella Beach, l’unico e striminzito fazzoletto di spiaggia a cui può accedere il cittadino napoletano dal lungomare fatto di cemento e scogliere artificiali. Prima, però, faccio una puntata alla rotonda di via Nazario Sauro. Qui ci sono molte più persone e mi aspetto una qualche reazione, ma ancora una volta, curiosità a parte, non scorgo una sola occhiata o parola offensiva o sgarbata: prendo posto e alle mie spalle qualcuno si chiede come faccio ad abbronzarmi visto che sto tutta coperta, ma non di più. Quando una bambina esce gocciante dall’acqua - quello specchio d’acqua che non so neppure se è balneabile o meno - e mi passa davanti in tutta la sua felicità marittima, la mamma la rimprovera a gran voce: «Non schizzare la signora, la bagni, è peccat’!». È peccato, nel senso napoletano del termine: un dolo arrecato all’altro che non può difendersi e al cui suono mi volto: la donna mi sorride come a scusarsi.

Ritornando in strada, faccio di nuovo amicizia o, se preferite, conquista. Un uomo mi ha tenuta d’occhio dall’alto e adesso vuole fare conoscenza in virtù dell’unico particolare fisico che può intravedere di me, così coperta: gli occhi. Tra italiano e dialetto, il mio corteggiatore mi chiede se non sto morendo dal caldo, da dove vengo, perché non mi fermo. «Quant’è bella - lo sento dire al fotografo che mi sta seguendo dall’inizio del tour – chest’è tunisina». Anche in questo caso, però, nessuna molestia o commento acido al mio fingere di non sentirlo. Ho tutto il tempo di acquistare una bottiglietta d’acqua e posso procedere. Arrivo al Lido Mappatella che è mezzogiorno: nessuno posa gli occhi su di me più di tanto. Poi arrivo al cospetto di cinque belle donne di età varia che non esitano a darmi a parlare: io continuo ad esprimermi nel francese portato in dono da 8 anni di studio e loro riesumano qualche parola, la mischiano all’italiano e al napoletano e quando chiedo: «Est-ce que je peux m’asseoir ici?», posso sedermi qui, mi accolgono strafelici. Una di loro decide di fare amicizia: a quello che mi dice ha origini tunisine e io mi invento, sul momento, una genealogia, una fede e una scelta di cui si mostra estremamente curiosa e rispettosa. Poco lontano, una donna in due pezzi ridacchia: è la prima a farlo così apertamente e viene messa subito a tacere dalle mie nuove amiche. La conversazione è più o meno questa: «E si ce fa zumpa all’aria?», fa lei ridendo. «È ‘na guagliona, che ce fa zumpà. Tene diritto pure essa a sta ‘ncopp’a spiaggia!», replicano le altre. «Ma è islamica!», «E tu sì cristiana!». La signora, a quel punto, chiosa: «Ah, si sta bona essa!», se sta bene lei. E poi decide di chiedermelo direttamente: «Tu stai bene?», domanda e al mio sì torna a voltarsi verso il mare.

La pace però dura poco: sembrerà assurdo ma a romperla sono io o almeno, il mio intento di scrivere e raccontare.
Il fotografo che mi sta accompagnando si avvicina per fare qualche scatto ed è allora che le signore che si sono erette a mia difesa già una volta si espongono nuovamente per me chiedendogli che diritto ha di fotografarmi senza prima chiedermelo. «Lasciala stare!», gli dicono o anche «Devi chiederglielo prima di scattare!» e ancora e ancora. La cosa va avanti per una decina di minuti, fino a quando non si forma un piccolo capannello di curiosi e sostenitori della mia libertà e io decido che è meglio andare. Quando tolgo il burkini devo ammettere che l’unico problema che ho incontrato indossandolo, se di problema si può parlare, è stato il caldo ma è qualcosa che ho sentito solo io, quindi possiamo inserirlo nella schiera delle sensazioni personali. Devo anche dire che è stato meraviglioso mettere a tacere i miei stessi timori, le paure con cui ci insozziamo gli occhi e la mente. E devo dire, infine, che sì, vi ho detto una bugia, cari napoletani. Ma voi mi avete risposto con la verità, la più bella e confortante possibile: mi avete detto che ero a casa qualsiasi fosse il mio credo, qualunque cosa avessi addosso. Grazie. 

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