Cannavaro: «Juventus, nemico da battere, vince chi non sbaglia in difesa

di Pino Taormina
Martedì 9 Febbraio 2016, 23:58
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Non è semplicemente il Napoli contro la Juventus. È qualcosa di più. È il Nord contro il Sud, il potere contro la fantasia, il benessere contro la povertà. «La Juve è l’avversario, il nemico, la squadra da battere a prescindere, pure se in palio non c’è lo scudetto. Ne so qualcosa anch’io: quando al San Paolo tornai da bianconero, le curve non mi diedero tregua. Quel giorno ero un nemico. Come tutti gli juventini». Fabio Cannavaro non ha il cuore diviso. «Ma neppure un po’. Sono napoletano e tiferò per il Napoli. Anche se giocando lì ho capito perché hanno vinto così tanto». Fabio d’Arabia, ora è a Riad ad allenare la squadra dell’Al Nassr. Resta la figurina storica del calcio all’italiana: capitano e simbolo, baluardo e fotografia, anima e cuore della Nazionale che ha trionfato a Berlino.
Il 7 marzo del ‘93 lei debuttò proprio in un Juventus-Napoli.
«Un sogno che diventava realtà: ero stato raccattapalle nella partite di Maradona e mi ritrovavo ad indossare la maglia azzurra giocando al fianco del mio idolo Ciro Ferrara. Avrei fatto di tutto per vincere quella gara, ma alla fine perdemmo 4-3».
Avrebbe mai creduto un giorno di giocare pure per i bianconeri?
«Il passaggio alla Juve arrivò nel momento in cui stavo vivendo nell’Inter un momento tranquillo. È stato un trasferimento inatteso. Ho vissuto tre stagioni molto buone che mi hanno aiutato a capire perché a vincere alla fine sono quasi sempre loro...».
Detta così, non è un buon auspicio in vista di sabato.
«Beh, in quel club trovi tutto organizzato in maniera perfetta: tutto viene programmato nei tempi giusti, pianificato con attenzione, gli investimenti sono a media scadenza e i risultati non arrivano mai per caso. Questo non significa, però, che la Juve batterà il Napoli, sia chiaro».
La Juve ha anche fatturati mostruosi?
«E cosa vieta a tutti gli altri in Italia di costruirsi lo stadio o di gestire meglio il marketing rendendo tutto più remunerativo? Il Napoli ha milioni e milioni di tifosi sparsi per il mondo...». 
La partitissima di sabato decide il campionato?
«Non credo. Dopo torneranno la Champions e l’Europa League che potrebbero distogliere parte delle energie delle due squadre. Questo cammino da record degli azzurri e dei bianconeri subirà un rallentamento. Difficile tenere questi ritmi così forsennati».
Si immaginava un Napoli così forte?
«Lo scetticismo iniziale nei confronti di Sarri era giustificato solo dalla delusione per come erano andate le cose lo scorso anno: lui è arrivato, ha lavorato, ha dato una identità alla squadra in tempi rapidissimi».
La sua intuizione migliore?
«Direi due: piazzare Jorginho là davanti alla difesa in un ruolo che esalta le caratteristiche del brasiliano e l’essersi reso conto in fretta che con tutti quei bravi esterni che si ritrova era meglio lasciar perdere il trequartista».
E Allegri?
«Ha risollevato un gruppo che pareva, dopo la finale di Champions, aver chiuso un ciclo. E invece non è così: la Juve ha sempre fame, è nel suo Dna. Certo, è meno spettacolare della squadra di Antonio (Conte, ndr) ma è più compatta. Direi: più tedesca che italiana». 
Simoni, ex allenatore dell’Inter ha detto: «Non vorrei che finisse come nel 1998...». È così importante il nome dell’arbitro?
«Solo un alibi per giustificare i proprio errori. Gli arbitri bisogna lasciarli in pace. Non mi piace che tutti stiano lì a pensare a chi verrà a dirigere la gara di sabato. E lo dico io che a Torino mi sono visto annullare quando ero nel Parma un gol in un big match per lo scudetto che ancora oggi non so perché non mi è stato convalidato...».
Il famoso “fallo di confusione”.
«Sì, lo chiamarono tutti così. Ma tutti devono dare la mano a un arbitro per farlo sbagliare il meno possibile».
Quanto pesa l’assenza di Chiellini?
«Direi tanto. Ma l’organico della Juventus è così ampio che alla fine Allegri troverà una soluzione che non ne farà sentire più di tanto la mancanza».
Ha conosciuto Higuain al Real, nel gennaio del 2007. Lei aveva appena conquistato il Pallone d’oro. 
«Sono rimasto colpito dalla sua tranquillità: lo vedi e sembra uno che non dia tanto peso a quello che sta facendo. Poi in campo si trasforma: potente e con un tiro forte e preciso. Era chiaro che sarebbe diventato un campione. Quello che sta facendo ora non mi sorprende».
Come si vive la vigilia di una partite che sembra una finalissima?
«I calciatori sanno bene quello che devono fare. Certo, ascoltano l’allenatore, vedono insieme i video degli avversari, lavorano alle contromosse. Ma meno si parla e meglio è. Non c’è bisogno di cariche speciali e neppure di discorsi epici: le motivazioni si trovano dentro di sé».
Quale la chiave tattica della supersfida?
«Le difese. Gli errori ci saranno, sono inevitabili in novanta minuti di gioco. Ma vincerà la squadra che avrà la difesa che sbaglia meno». 
Quella di Sarri ha avuto una metamorfosi in pochi mesi.
«Volevo mandare via tutti l’estate scorsa, da Koulibaly ad Albiol. Invece adesso sono due colossi. A livello di squadra, nessuno ha una organizzazione difensiva come quella del Napoli».
Che significato ha questa partita per i napoletani?
«Lo capivo già all’inizio della settimana che la domenica avremmo incontrato la Juve: tutti a dirmi “mi raccomando”. Poi negli ultimi anni le finali di Coppa Italia e Supercoppa hanno ancor di più aumentato questa rivalità».
Come finisce sabato?
«Un bel pareggio a Torino non è mai un risultato da buttare».
Un’ultima cosa: torna dall’Arabia per prendere il posto del suo amico Antonio come ct?
«Io ci sono. Se vogliono... Intanto continuo a fare esperienza anche qui».
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