De Rita: «Generazioni divise ma l’Ue
non scalda né padri né figli»

di Nando Santonastaso
Sabato 25 Giugno 2016, 23:33
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Generazioni contro nel referendum britannico. Padri (e nonni) per la Brexit, figli (e nipoti) per l’Europa. Ma attenti, avverte Giuseppe De Rita, sociologo di lungo corso e presidente del Censis: la contrapposizione non ha una lettura scontata, come a prima vista sembrerebbe, i «cattivi conservatori» da una parte e i «buoni globalizzati» dall’altra. «È storicamente e filosoficamente corretto dire che i giovani hanno visto dell’Europa la parte più fredda, la finanza, la speculazione, l’altalena delle Borse; mentre i nonni hanno attraversato la guerra e i padri hanno vissuto anche indirettamente meccanismi come quelli della protesta del ‘68 o del maggio francese in cui la cultura della politica era fatta di ideali, aveva voglia di futuro. Era calda, in altre parole», dice De Rita.


 Ci spieghi meglio professore: sta dicendo che è sbagliato leggere il voto inglese dei giovani come una protesta contro il tentativo di tornare al passato, ovvero alla stagione della Gran Bretagna isolata in Europa?

«No. Ho detto che per i loro nonni conta la cultura del “mai più guerra” avendo essi subìto l’impatto con il disastroso conflitto mondiale 1940-45. Ed è difficile negare che questa non sia una motivazione calda per la quale al referendum si doveva votare di cuore, dal loro punto di vista. Ai giovani sta bene invece un’Europa più fredda, che non è certo quella di Spinelli e che per così dire riscalda meno, molto meno».

Per questo è stata bocciata?

«La scelta del 1957, dare vita ad una grande area di libero scambio e non all’Europa dei popoli come volevano Spinelli e altri, fu molto criticata e non a torto. Essa nei fatti ha prodotto l’euro, Maastricht e altre discutibili scelte: non a caso è stata definita un’Europa senza anima, senza ideali. La stessa Commissione è un organismo di burocrati impegnati a lavorare su normative e direttive. Per i giovani però va bene anche questo: l’Europa, questa Europa, li lascia liberi come vogliono perché comunque ha una sua validità tecnocratica che loro accettano».


Tutto qui? Dietro il voto dei giovani per restare in Europa non ci sono anche ideali, voglia di costruire una vera integrazione, rifiuto di considerare l’Unione solo come una riserva di caccia per le banche?

«Io credo che il ragionamento da fare sia un altro. L’Europa guidata da Juncker, l’Europa delle banche come dice lei non piace sicuramente nemmeno ai padri e ai nonni. Non so se da questo punto di vista lo choc della Brexit sia stato salutare. Penso invece che la voglia di politica calda, nella quale sognare anche di tornare al Leone rampante o all’egemonia dell’impero britannico, abbia avuto un forte peso. Come si può immaginare, si tratta di temi che prendono poco i giovani mentre agli anziani se parli di Commonwealth l’attenzione è nettamente maggiore».

Ma allora che fine ha fatto la generazione che solo pochi decenni prima era in strada a contestare, che amava i “rivoluzionari” Beatles e non voleva la guerra in Vietnam? Tutto dimenticato, professore?

«È molto difficile rispondere e io non so se gli anziani di oggi siano peggiori di quelli a cui fa riferimento lei. La storia va sempre per conto proprio. Oggi mi limito a prendere atto che nel caso del referendum britannico è emersa questa differenza tra giovani e anziani: politica fredda da un lato, calda dall’altro».

Nessun dubbio sulla legittimità della volontà popolare?

«Assolutamente no. In ogni referendum vince sempre chi ha ideali, anche se non condivisi da tutti. Anche un’emozione anti-immigrati è un’emozione calda. Di sicuro il referendum resta una grande prova di democrazia anche quando il futuro dell’Europa, come in questo caso, può essere in qualche modo deciso da una piccolissima fetta di elettori rispetto alla popolazione dell’Unione. Il problema è che non si rispetta la neutralità del referendum: si è votato contro Cameron e le sue manfrine politiche più che contro l’Ue».

Si stenta a pensare ai giovani in termini di freddezza...

«Lei provi ad andare in un qualsiasi vagone di metropolitana. I giovani se ne stanno quasi sempre con il loro telefonino tra le mani, un una sorta di chiusura autoreferenziale: mi sembra che sia tutto tranne che un mondo di emozioni calde».

La Brexit, secondo i giovani, ha inflitto un altro colpo alle loro aspirazioni: come se non bastassero le pensioni e la crisi occupazionale, i padri e i noni hanno scaricato ora anche l’Europa almeno in Gran Bretagna. È d’accordo?

«Il rischio che i giovani stiano perdendo delle opportunità è reale ma non si può dire che gli anziani lo hanno fatto apposta. Fino a quando i giovani di oggi non diventeranno maggioranza in un referendum, fino a quando statisticamente saranno minoranza - e lo saranno sempre di più perché la generazione attuale invecchia lentamente - non si può dire che portano avanti la storia».

Molte previsioni non sono così pessimistiche.

«Io sono convinto che le previsioni, le valutazioni, i giudizi etici di una società contraddittoria e complessa come la nostra valgono poco. Si esiste e ci si muove per proprio conto, è difficile modificare la società con impegni valoriali e ideali. Diciamola tutta, la realtà ha una pesantezza da schiacciasassi. Noi non sappiamo come sarà la realtà dei prossimi mesi e anni, ma sarà sempre la realtà a vincere, non gli accordi tra i leader o i nostri articoli di fondo. Del resto lo diceva Papa Francesco quand’era ancora cardinale in Argentina: “Le opinioni non radunano, la realtà è”. È una saggezza di cui non si può non tener conto».

Accettare la realtà non significa rinunciare a cambiarla?

«Lei non trova più grandi rivoluzionari in giro, tutti noi prendiamo il mondo per come è, senza vergogna, senza rimpianti e senza rancore. Quando una cosa è così, inutile stare a discutere».

Sono i social ad avere influenzato la realtà al punto da renderla, come dice lei, fredda?

«No, non c’entrano i social.
Quello è un circuito chiuso. Quelli che ne fanno parte si parlano tra di loro, quando vogliono usano i pochi caratteri concessi per fare un’opinione ma poi devono sperare che il tweet sia ripreso dai giornali del giorno dopo. Difficile parlare di un’opinione collettiva. Il mondo virtuale è tutto autoreferenziale, tutto stretto mentre oggi ci sarebbe bisogno di un respiro più largo. Di sicuro non avremmo mai fatto l’Europa tanti anni fa se avessimo avuto a quell’epoca la videata di un blog o facebook».
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