Il caro prezzo che pagano i sopravvissuti

di Alessandro Perissinotto
Sabato 21 Gennaio 2017, 23:30
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Nel film «Titanic», così come nei racconti dei cantastorie sui grandi naufragi del Novecento, più strazianti delle scene di morte sono le scene in cui le famiglie si separano, in cui i mariti salutano le mogli che si imbarcano sulle poche scialuppe, in cui i genitori affidano i figli a sconosciuti perché li traggano in salvo. Sono strazianti perché, in quei pochi attimi di concitazione, le persone sono costrette a scegliere razionalmente chi si sopravviverà e chi soccomberà. Agli ospiti dell’Hotel Rigopiano, l’onere di questa scelta non è stato dato: è stata la natura, il caso, il Dio benevolo delle Scritture o un dio capriccioso della mitologia a scegliere per loro.

Eppure, il risultato è stato lo stesso: vite che si erano intrecciate tra loro per anni sono state divise in un attimo. Certo, accade in ogni tragedia: in una sciagura aerea, quando i genitori attendono all’aeroporto un figlio che non arriverà mai; in un ospedale, quando una giovane madre muore di cancro lasciando marito e figli a fare i conti col ricordo. La morte stessa è separazione per antonomasia, e la falce con cui la rappresentiamo non taglia solo il filo della vita, ma recide anche i legami che a quella vita davano un senso. Eppure, nel caso della valanga sul resort, così come in altri casi, la separazione ci appare più drammatica e il gioco del fato più cinico; sì perché qui i morti e i sopravvissuti si trovavano nello stesso posto, nella stessa situazione, nella stessa porzione di spazio-tempo, condividevano, fino a un secondo prima della morte, lo stesso destino. A fare la differenza è qualche metro, qualche istante. 

Mentre cerco col mio telefonino notizie di speranza dall’Abruzzo, mi trovo a Nizza, sulla Promenade des Anglais: anche qui è stata questione di metri o di centimetri, anche qui, tra la vita e la morte si è frapposto un palo della luce, un muretto o una panchina. E anche se la Municipalità sta rifacendo la pavimentazione del lungomare e installando (non è mai troppo tardi) dei dissuasori in acciaio, basta un po’ d’immaginazione per vedere a terra i corpi di chi è stato falciato dal camion assassino e per vedere, accanto a quei corpi, la faccia stravolta di mariti, di fidanzate, di genitori e di figli che il destino ha voluto risparmiare.

E allora ti fai una domanda che, lo sai, rimarrà senza risposta: c’è una logica in tutto questo? C’è un disegno misterioso dietro la scelta apparentemente casuale tra chi, all’interno della stessa famiglia o della stessa coppia, vive o muore? Nella catastrofe di Rigopiano potremmo vedere una specie di falla nella ferocia della natura, come sé, pur scatenando tutta la sua violenza, avesse voluto dare all’umanità un segno di misericordia, come se avesse deliberatamente voluto salvare i bambini, gli innocenti, il futuro. Ma non illudiamoci, non invischiamoci in leopardiane distinzioni tra natura come madre benigna e natura come crudele matrigna: non c’è logica, solo fortuna. È una fortuna che i bambini si siano trovati tutti insieme, forse a giocare, forse a raccontarsi fiabe, in uno spazio più protetto degli altri; è una fortuna che una donna, una mamma, fosse lì con loro. Ed è stata una fortuna, per qualcuno, uscire dall’albergo un giorno o un’ora prima che fosse troppo tardi. Non è benevolenza del cielo (ché altrimenti non si spiegherebbe perché il cielo abbia deciso di spenderne così poca), non è logica suprema e insondabile: è solo fortuna. Ma è davvero fortuna nel senso più corrente del termine? Difficile dirlo. Qualcuno, più cinico e sfrontato di me, potrebbe chiedere a chi si è salvato perdendo l’altra metà della coppia se sa dove stia di casa la fortuna, se, magari segretamente, non provi un po’ d’invidia per le coppie che se ne sono andate insieme. Ne «I sommersi e i salvati», di Primo Levi, c’è un capitolo che si intitola «La vergogna». La vergogna è quella che sentono i salvati, quelli che, al momento della liberazione dal lager, non riescono a provare gioia, schiacciati dal peso dei sommersi, tormentati dalla domanda «perché io?»; perché io mi sono salvato e il mio amico, mia moglie, mio fratello, i miei figli sono morti dietro al filo spinato?

A partire dal momento in cui ogni speranza di oggi sarà stata definitivamente confermata o definitivamente spenta, dal momento in cui la conta dei sommersi e dei salvati sarà chiusa una volta per tutte, sarà sui salvati che la collettività dovrà lavorare, per aiutarli a portare il fardello che la salvezza ha consegnato loro. Troppo spesso, e Primo Levi ce lo dimostra, tutti concentrati sui morti, abbiamo dimenticato i sopravvissuti, come se, invece di avere bisogno del nostro aiuto, dovessero soltanto ringraziare per il fatto di essere in vita. È vero, già ieri, qualcuno, scampato alla valanga, ha ringraziato su Facebook e il ringraziamento ai soccorritori è d’obbligo, ma le tragedie, e quella di Rigopiano non fa eccezione, hanno sempre un colpo di coda, un atto supplementare che va in scena in privato, quando il sipario si è già chiuso; questo atto supplementare è il prezzo che i superstiti pagano per la loro fortuna, che pagano con la moneta del dolore, con la condanna a continuare a vivere sull’orlo di una spaccatura, quella che la valanga, o il camion, o il kalashnikov, ha aperto tra loro e le persone che amavano. Ed è di fronte a questa spaccatura che anche un ateo convinto, indurito, inacidito come me reclama qualcosa di più del nulla dopo la morte, qualcosa che non ha la complessità e la potenza inumana di un dio, qualcosa che non giudica e non premia, qualcosa di più semplice, come una «seconda volta», una «seconda chance», una possibilità di vedere di nuovo chi ci è stato portato via da quella spaccatura. De André ha chiuso una sua canzone con una frase che si scolpisce nella memoria: «Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati». Sono parole bellissime, ma alle coppie e alle famiglie che si sono lasciate sotto la neve pesante e cattiva di Rigopiano non possono bastare.
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