Il paese che abusa dei diritti

di Oscar Giannino
Venerdì 28 Ottobre 2016, 00:04
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 Renzi l’ha ammesso due sere fa da Vespa, a Porta a Porta: «Sulla scuola ho fatto errori». Non ha spiegato quali, ma una cosa è sicura. Si era capito già ad agosto, che il primo anno di applicazione della Buona Scuola non sarebbe stato rose e fiori. Si era capito perché i dati parziali che venivano dalle 825 commissioni di concorso per le 63 mila cattedre triennali bandite, dopo la prima leva di 87 mila precari messi in ruolo con la riforma, lasciavano già presagire l’inatteso risultato di restare con 25 o 30mila cattedre coperte. Ma il dato che si profila dopo un mese e mezzo è molto più preoccupante. Ha del disastroso. E spiega, crediamo, l’ammissione sincera di Renzi. 

È un insuccesso vero, infatti. La riforma nata per abolire il precariato e sconfiggere le supplenze a mitraglia, e per impedire le classi con docenti a tempo magari non assegnati per molti mesi, ha fallito la sua prima prova. C’è chi calcola in 85 mila i posti a oggi ancora scoperti, come potete leggere nell’articolo di approfondimento a questo dedicato. Perché al problematico esito delle commissioni di concorso si sono abbinati due altri fenomeni di massa. In primis la complicatissima gestione di una mobilità sul territorio pari a quasi 200mila insegnanti, increduli e impreparati a vedersi assegnare da un capo all’altro della penisola (e soprattutto da Sud a Nord). E poi l’immensa panoplia di strumenti che il nostro bradipico ordinamento riserva a chi oppone alle nomine le tutele offerte dal diritto: dall’impugnativa davanti al giudice amministrativo, ai certificati medici, alla legge 104 per assistere parenti malati. Le commissioni di concorso erano partite tardi.

Per questo oltre un terzo delle 825 non hanno terminato l’iter di valutazione entro i termini utili per le assegnazioni a cattedra d’inizio anno. E in moltissime Regioni, per altro, la percentuale dei non ammessi agli orali ha toccato soglie terrificanti: in Lombardia il 70%, mentre per la scuola materna nel suo complesso a fine agosto erano ammessi agli orali solo poco più del 22% di coloro che avevano sostenuto gli scritti. Con enorme indignazione dei sindacati, ma a conferma del monito levato da chi – anche noi, insieme alla Fondazione Agnelli – avevano per tempo segnalato che tenere vergognosamente masse di precari per decenni nella scuola italiana, come ha fatto la politica italiana finché l’Europa non ci ha costretto ad affrontare una volta per tutte il problema, non poteva certo essere considerato un sistema volto a motivarli all’aggiornamento professionale.

Da questo primo macrofenomeno è scaturita la necessità di oltre 30mila nomine di supplenti, pescati ancora una volta come in passato dalle graduatorie GAE. O meglio da quel che ne restava, perché in molte province italiane erano esaurite dalla prima leva di immessi in ruolo e dalla gran massa di partecipanti al concorso. Col risultato paradossale che spesso è stato nominato come insegnante supplente chi non aveva superato la prova di concorso. Ma ad essere di fatto sfuggito di mano è stata la mobilità. Il sistema ha opposto una resistenza strenua alla volontà ministeriale di considerare la messa in ruolo come premio prevalente sul disagio di vedersi proiettati in un ambiente di vita estraneo a quello in cui per anni e decenni i precari avevano organizzato la propria vita.

Di qui impugnative amministrative a raffica che hanno portato nell’immediato a ordinanze sospensive, e tanto è bastato a bloccare i trasferimenti. Anche se poi in gran numero di casi segue un giudizio di merito sfavorevole al ricorrente. Ma intanto il danno è fatto, per il mancato completamento degli organici a inizio anno scolastico. Terzo fenomeno: quello delle migliaia che hanno accettato il trasferimento e l’incarico, tranne al primo giorno consegnare o far pervenire al dirigente scolastico attestazioni mediche che impedivano la prestazione del servizio, o comprovanti il diritto a beneficiare della legge 104 per assistere parenti malati. Dalla Lombardia al Piemonte al Trentino, sono centinaia gli istituti i cui dirigenti scolastici si sono trovati a dover affrontare un’emergenza imprevista di questo tipo. E c’è infine un altro, gravissimo quarto problema: mancano molti – secondi alcuni sindacati circa 25 mila - insegnanti di sostegno per i disabili.

E con questo, il cerchio si è chiuso. Se ne parla l’anno prossimo, care famiglie italiane che pensate di pagare le tasse per avere insegnanti che seguano i vostri figli stabilmente, e con titoli verificati. Ammettiamolo. Il governo ci ha provato. Con l’eredità che doveva affrontare, l’effetto del cinismo praticato per decenni dalla politica alle spalle di centinaia di migliaia di precari, credere dimettere le cose a poste in un anno era come voler svuotare l’oceano con un mestolo. Ma purtroppo la riflessione è più amara. L’insuccesso della Buona Scuola non è solo figlio del passato. Deriva dalle mille regole che sembrano fatte apposta per frenare, sviare e impedire qualunque riforma seria e incisiva. Le certificazioni mediche di comodo sono un problema costante del mondo pubblico italiano: e parlano della crisi profonda della deontologia dei medici italiani, oltre che dei dipendenti pubblici che vi fanno ricorso.

E la percentuale di applicazione della legge 104 al mondo pubblico, superiore di un multiplo a quella attestata nel lavoro privato, ci dice dell’inaffidabilità dei controlli nel nostro paese.
Talché si può essere armati anche del migliore spirito riformista, ma alla fine si esce sconfitti. Al ministero lo dicono a mezza bocca. Dietro le impugnative e le certificazioni depositate all’ultimo minuto ci sono sindacati e sindacatini che volevano il posto per tutti, subito e senza ulteriori concorsi, dietro casa o al massimo non troppo lontano, anche se le cattedre scoperte sono al Nord e la maggioranza dei precari è del Sud. Purtroppo bisogna saperlo. Riformare l’Italia con questa selva di finti diritti che diventano veri freni è un’opera titanica. Chiede di cambiare le teste e le mentalità, prima ancora delle leggi e dei regolamenti.
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