Il silenzio assordante del centrodestra

di ​Mauro Calise
Venerdì 17 Febbraio 2017, 23:45
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Si è detto spesso che la politica di Napoli è un laboratorio del Paese. Ne anticipa tendenze e svolte. Nel bene come nel male. Fu qui che la primavera dei sindaci dette i suoi primi, promettenti frutti. E sempre qui si registrarono precoci segnali di crisi. Fummo i primi anche a sperimentare quanto fosse complesso – e contrastato – il cammino per trasformare un grande sindaco in un governatore di successo. Intravedendo le molte aporie di un esecutivo – e un consiglio - regionale refrattari alla leadership monocratica. E non meno importante, e pesante, fu il lascito del quasi ventennio bassoliniano: la destrutturazione, per certi versi desertificazione, di entrambi i due grandi campi contendenti. Un effetto subito visibile – drammaticamente – a sinistra, con gli epiloghi imbarazzanti oggi raccontati dalle cronache.

Ma non meno profondo è stato il baratro che l’egemonia bassoliniana ha aperto nella destra napoletana. Sbaragliata nel ’97, e ancora – vent’anni dopo – incapace di ritrovare un minimo di identità, di voce. Un silenzio che la breve parentesi cosentiniana aveva provato a mascherare, portando linfa – e, soprattutto, voti – dalla periferia e altre province. Ma che oggi si presenta spettrale. Con l’uscita di scena di Lettieri, che lascia alle proprie spalle – semplicemente – il vuoto. 

A continuare con l’analogia dell’Italia che si specchia a Napoli, non è certo meno radicale lo scompiglio che il declino di Berlusconi ha portato nel bipolarismo di cui era stato tanto a lungo il perno e la ragion d’essere. A conferma che una leadership forte può essere, al tempo stesso, indispensabile e fatale. Il paradosso – e contrapasso – della democrazia contemporanea. Uno scenario che diventa inquietante se completato con il terzo incomodo – oggi si dice terzo polo. Anche qui – ahinoi – con la metropoli partenopea come battistrada dell’exploit dell’antipolitica, l’ascesa degli scassatori al governo che ha come presupposto il suicidio politico dei competitor.
Da questo cupio dissolvi dei partiti un tempo signori della scena, si possono trarre due lezioni, ovviamente di segno opposto. Ci si può accanire sui limiti del leader desertificatore, ed auspicare la restaurazione delle classi dirigenti che furono. Un obiettivo nobilissimo e, sulla carta, condivisibilissimo. Ma per il quale fino ad oggi – purtroppo – nessuno ha ancora trovato la ricetta. Ha il vantaggio di trovare tutti d’accordo, e lo svantaggio di non portare a niente. All’apparenza, non è meno impervia l’altra strada. Quella di rassegnarsi al Zeitgeist, lo spirito del tempo che imporrebbe un capo carismatico come unico – temporaneo – surrogato al deficit di legittimazione e partecipazione che affligge, oggi, lo sgangherato rapporto delle masse coi loro governanti. La differenza è che, in questo caso, si fa prima – molto prima – a sbarazzare il campo delle illusioni (soprattutto dalle più pericolose, quelle travestite da buone intenzioni). Se, con la lanterna di Diogene, andate in cerca di una nuova classe dirigente, potete passare qualche anno a discettare su come e quale e dove la dovreste trovare (un esercizio cui gli intellettuali si appassionano per mestiere). Senza cavare un ragno dal buco. Se invece puntate dritto al leader, la prova del budino è immediata. 

Quanti, alle ultime elezioni a Napoli, hanno in cuor loro potuto pensare – in buona fede – che ci fosse in campo qualcuno in grado di impensierire De Magistris? (ho scritto: in buona fede!). E quanti oggi, tornando all’Italia, credono che nella cosiddetta minoranza esista, anche molto in lontananza, chi sia in grado di succedere a Renzi una volta che davvero riuscissero ad azzannarlo alla gola? Cercare il leader, in definitiva, non significa coltivare attese messianiche. E nemmeno garantirsi il risultato: come oggi Trump, e domani – forse - Le Pen, stanno ahinoi fin troppo male a dimostrare. Ma significa accettare il fatto strutturale della democrazia contemporanea, che quel poco di energia che le rimane passa – ed emerge – attraverso la cruna dell’ago della leadership. A Napoli lo abbiamo imparato, fin troppo bene, a sinistra. È lo stesso destino anche a destra. Ora che Lettieri ha strappato l’ultimo velo, si apre finalmente la lotta di successione. Con un’unica condizione: rinunciare a ogni illusione di pacificazione.
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