Il silenzio degli amici di Genny per coprire un baby boss armato

Il silenzio degli amici di Genny per coprire un baby boss armato
di Leandro Del Gaudio
Sabato 21 Gennaio 2017, 23:52
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C’è chi ha perso il lavoro dopo quella notte. E c’è chi si sente miracolato, ma anche chi si dice «incazzato» perché costretto a rinunciare a un tavolino in discoteca («roba di 5-600 euro a prenotazione»), e chi invece sogna di lasciare il quartiere Sanità e di andare a vivere altrove. E non è finita. La galleria umana di quella notte offre anche altri esempi: come quello del tizio che capisce tutto e lascia la piazza due ore prima dei killer, lui che a 23 anni si sente già uomo, tanto da avvertire dentro di sé che «tirava una brutta aria». Eccoli gli amici di Gennaro Cesarano, i sopravvissuti di una «stesa» del clan Lo Russo (24 colpi esplosi da tre pistole), ma anche i testimoni oculari smemorati, protagonisti di una reticenza che il questore Guido Marino non ha esitato a definire «spregevole». 
Parliamo di Dario, Antonio, Giuseppe, Pasquale, Eddy, ma anche Fabiana, Vincenza e Martina. Voci diverse, stessa strategia, a leggere l’ordine di cattura a carico dei quattro presunti killer entrati in azione all’alba del sei settembre del 2015, all’esterno del pub El Pocho, a pochi passi dalla chiesa San Vincenzo alla Sanità: a sentire le intercettazioni ambientali, si capisce che hanno le idee chiare sulla matrice dell’omicidio di Genny, sullo scenario in cui è maturato e sulla provenienza da Miano (quindi clan Lo Russo) degli otto killer entrati in azione quella mattina. 
Sanno anche che la stesa in cui è maturato il delitto del 17enne era solo una risposta a un agguato consumato ore prima per ordine del boss Piero Esposito (poi ucciso), ma dinanzi agli inquirenti tacciono. Non dicono granché a proposito della pista principale, ripetono frasi che sembrano studiate a tavolino, ma non offrono indicazioni che potrebbero rivelarsi preziose. E non è tutto. Non hanno solo l’obiettivo di non immischiarsi, ma provano tutti a proteggere l’identità di un loro amico, uno che stava nel loro gruppetto, che quella sera era probabilmente armato e che viene indicato solo con un soprannome. Ragazzi incensurati, ma a conoscenza di una regola: indicare il nome del potenziale obiettivo (in quanto ritenuto di spessore criminale) significa indirizzare gli inquirenti nella pista giusta, quindi entrare nel vivo di un processo. Inchiesta coordinata dai pm Celeste Carrano, Enrica Parascandolo e Henry John Woodcock, in forza al pool del procuratore aggiunto Filippo Beatrice, agli arresti sono finiti Antonio Buono, Luigi Cutarelli, Ciro Perfetto, Mariano Torre. Ma sentiamo le voci degli amici di Genny, grazie alla cimice piazzata nell’auto di uno di loro, secondo quanto emerge dall’ordine di arresto firmato dal gip Francesca Ferri.

Antonio: io vivo per miracolo
Si definisce così uno degli amici storici di Genny Cesarano, quando viene ascoltato dalla Mobile. Dice di aver sentito «una miriade di colpi», sa di essere «vivo per miracolo». E ancora: «Mi sono buttato nel vicolo, pancia a terra, non so altro». Ma è grazie a una microspia nella sua auto che è possibile capire quanto la sua conoscenza fosse ben più profonda su dinamica e scenario del delitto. È il 26 ottobre, un mese e mezzo dopo la morte di Genny, che la conversazione va a senso unico: «Sono stati quelli di Miano», dicono gli interlocutori, anzi «è stato il figlio di Lello Russo ‘a scigna» (indicazione che rimanda alla famiglia Perfetto). Parole gravi se si pensa che proprio in quel periodo gli inquirenti battevano tutte le piste possibili, compresa quella della rissa al San Paolo (durante Napoli-Sampdoria) come causa dell’omicidio Cesarano. 

Niente tavolo in discoteca
È uno degli sfoghi intercettati dalla Mobile, che risale al 29 settembre del 2015, 23 giorni dopo la morte di Genny. Parlano più interlocutori, si avvertono segnali di malessere per il pressing investigativo. È così che uno degli amici di Genny si mostra rammaricato anche per aver dovuto rinunciare a una serata in discoteca, con tanto di tavolino prenotato: «Mi hanno ucciso, mi stanno uccidendo, ho la Procura addosso, non vado a ballare più». Un punto poco chiaro, probabilmente provocato dal diktat di uno dei boss della paranza dei bimbi che aveva vietato l’ingresso in una discoteca a chi era rimasto coinvolto a vario titolo nelle indagini: «Mo vado a ballare, me ne cacciano dopo mezzora, tanto che ci rifondiamo per il tavolo cinque-seicento euro».

«Tirava una brutta aria»
L’unico che aveva capito tutto, o per lo meno lo aveva intuito, era lui: Pasquale Pica, quello che subito dopo il delitto postò su facebook una foto assieme a Genny Cesarano. Un nome che entrò nella cronaca di quei giorni anche per un’altra circostanza: Pica era rimasto coinvolto nella rissa al San Paolo, durante la prima partita stagionale del Napoli. Una rissa tutta interna alla curva, che fece immaginare la possibilità di una risposta poi culminata con l’omicidio di Genny. Una ricostruzione rimasta priva di fondamento, che viene smentita dinanzi alla Mobile dallo stesso Pica: «Non avevo nulla da temere, non ero io l’obiettivo di quell’agguato. I fatti del San Paolo non c’entrano, è una storia finita lì, nel chiuso della curva». Anche da parte di Pasquale Pica, non vengono fuori altri riferimenti utili, né l’amico storico di Genny si preoccupa di fare il nome del ragazzo dal cognome pesante che poteva rappresentare un target per il commando di morte. Anzi. Pica racconta di essersi allontanato dalla piazza un paio di ore prima del delitto. Una forma di sesto senso? «Capii che tirava una brutta aria - ha raccontato –. Ho 23 anni, non sono un ragazzino, ma ho una discreta esperienza. Quanto basta a capire che l’atmosfera di quella notte non mi piaceva: mi accorsi che in diverse ore non era passata una sola auto della polizia e qui alla Sanità eravamo rimasti solo noi». 

Testimone licenziato
Ma non ci sono solo casi di amnesia o di reticenza nella notte napoletana. No, c’è spazio anche per assunzioni di responsabilità diretta. È il caso di Eddy, l’ex cameriere del pub, uno dei testi oculari. Riflessi pronti, anche Eddy finisce a terra sperando di non finire ammazzato, anche lui - che fa il cameriere - si augura che l’inferno passi in fretta, solo che il giorno dopo non si sottrae al proprio dovere civico. Prova a piantare un albero per Genny, poi - una volta dinanzi a una cronista del Mattino -, racconta quanto ha visto. Poi, il giorno dopo, Eddy si licenzia, dopo aver compreso il rischio di conseguenze della propria azione: «Mi sono licenziato, ora lavoro al Vomero. Capii che per me non c’erano più le condizioni per lavorare da queste parti». 

Vorrei lasciare la Sanità
Stessa versione messa agli atti dinanzi alla Mobile da parte di un altro amico storico del 17enne ammazzato. Si chiama Dario, che dopo il consueto «non ho visto niente, ero in fuga punto e basta», ha aggiunto parole cariche di malinconia: «Mio padre lavora onestamente, vorrei fare come lui, per questo vorrei andare via dalla Sanità, vorrei trovare un lavoro onesto via di qui».

L’uomo ombra
Intercettato anche il ragazzo dal cognome pesante, quello di cui nessuno voleva fare il nome. Per la mobile era armato ed era nel gruppo di Genny. Quando ripensa all’agguato dice: «Se incominciavo a sparare anche io, salivano sul marciapiede e ci ammazzavano tutti». Quanto basta a capire le ragioni di amnesia e reticenza.
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