La rettrice araba di Haifa e la protesta insensata

di Massimo Adinolfi
Lunedì 15 Aprile 2024, 23:30 - Ultimo agg. 16 Aprile, 06:00
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Ad Haifa, dal prossimo autunno, l’università avrà una rettrice donna. Cristiano maronita, e araba. Ad Haifa, cioè nello Stato di Israele. Ma nelle università italiane cresce la protesta degli studenti, che chiedono di interrompere ogni partecipazione degli Atenei ai bandi di cooperazione con Israele. Perché Israele e un paese in guerra, perché la guerra è una guerra di occupazione e di sterminio, perché la guerra di occupazione e di sterminio fa troppe vittime innocenti fra la popolazione civile.

I o non so come farà Mona Maroun, che leggo essere studiosa difama mondialenel campo delle neuroscienze, a portare avanti i suoi impegni di ricerca,nonostante il peso dei compiti amministrativi connessi alla carica di Rettrice,ma le università italiane, sotto la spinta del movimento studentesco, provano a semplificarle le cose: niente collaborazioni, niente progetti comuni, niente diniente. Haifa, Mona Maroun, portanouna colpa troppo grande: sono israeliane e, coni palestinesi sotto il tallone dell’esercito israeliano a Gaza, non si può fare finta di nulla. Sarebbe pura ipocrisia. Chissà, però, se è ipocrita pure il presidente della Repubblica italiana, chenon più tardi della settimana scorsa ha detto: il dibattito, il dissenso, la critica – elementi che nelle università nutrono e sostengono la formazione e la trasmissione del sapere – «sono collegati al di sopra dei confini e al di sopra dei conflittifra gli Stati».

Sergio Mattarella ha detto pure che le disdette degli accordi conle università israeliane, che piovono in queste settimane, non aiutano né i diritti né la pace – sicuramentenon aiutano Mona Maroun –, ma immagino che simili parolenon vengano considerate dalle reti di studenti per la Palestina un invito alla saggezza, alla moderazione, al dialogo, bensì una vergognosa forma di complicità conl’oppressore. Eppure basterebbe chiedersi dove si nascondono i veri semi di pace – nel ricacciare gli uni e gli altri nei rispettivi odii, nei rispettivi rancori, nell’alimentare inIsraele la sindrome dell’accerchiamento, o piuttosto nel favorire le occasioni di confronto, di apertura, di superamento dei confini, di interdipendenza scientifica e culturale, dimescolamento delle identità? – per mettere in dubbio la sensatezza di una simile,indiscriminata protesta.

La quale, se dà un segnale, lo dà sbagliato. Basta leggere il volantino diffuso dagli studenti napoletani della Federico II, inoccasione dell’incontro conil Rettore, Matteo Lorito, che in segno di attenzione verso le ragioni della protesta ha lasciato il comitato scientifico della Fondazione MedOr, perché facente capo a Leonardo, cioè al principale gruppo industriale nel settore della difesa e della sicurezza che abbiamo inItalia (poi, in separata sede, si potrebbe fare pure una discussione – questa, sì, senza ipocrisie – appunto su democrazia, difesa e sicurezza, e su comeun Paese possa sedere nei principali consessi internazionali senza avereuna certa ossatura industriale, certi obblighi e certe connesse responsabilità: per abbattere i droni che ti piovono sul capo, ad esempio, con costosissimi sistemi d’arma che, guarda unpo’, richiedono enormi investimenti sulla ricerca perché non sitrovano su Amazon).

Ma dicevo il volantino, dove si richiede «la rescissione ditutti gli accordi di collaborazione, ricerca e mobilità internazionale con le università israeliane».

Tutti. Pure io, che sonfilosofo, inIsraele non ci devo metter piede e il mio collega filosofo, che stia ad Haifa o a Gerusalemme, allo SpinozaCenter o dove invece studiano Hermann Cohen e Franz Rosenzweig (e come gli ebreitedeschi se la passassero in Germania nel primo Novecento), pure lui lì deve restare. Vedremo cosa deciderà il Senato Accademico,fra qualche giorno.Ma intanto si vede già benissimo cosa una simile richiesta significa:non favorire la pace,non buttare giù Netanyahu, ma boicottare Israele. E boicottare pure Mona Maroun, nonostante possa essere esempio di una collaborazione pacifica arabo-israeliana, simbolo del superamento dell’idea di una costruzione di Stati etnicamente omogenei, partner di concrete azioni di solidarietà tanto con gliisraeliani quanto con i palestinesi:nonostante tutto questo e nonostante il principio che prova a mettere al riparo il sapere, la ricerca, le università, da pressioni direttamente politiche. Perché alfondo sifa sentire prepotente un’esigenza molto semplice: non possiamo essere alleati diIsraele. Ho letto e riletto, il volantino,l’ho guardato fronte retro, l’ho girato e ritirato: nelle premesse vi ho trovato un riferimento alla «accelerazione degli eventi bellici» e poi basta,niente che potesse fare pensare alla cupa violenza del 7 ottobre. Perché c’è, per gli studenti, una causa palestineseper cui combattere, ma nessuna violenza di Hamas da condannare, enessuna amicizia verso Israele da preservare. Pensano così di fare passi verso la pace? Io vedo solo percorrere la via di semprenuove, e più profonde, ostilità.

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