Quei corpi partoriti dalla terra

di ​Titti Marrone
Venerdì 20 Gennaio 2017, 23:33
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Madre e figlio sono spuntati all’improvviso quasi fossero stati partoriti dalla terra, o dal varco scavato nella muraglia di neve e ghiaccio per farsi strada fra le macerie di ciò che resta dell’hotel Rigopiano. Prima, come quando ci si affaccia alla vita, è apparsa la testolina bruna del figlio, guidata dalle grandi mani inguantate dei vigili del fuoco ma piano, per non provocare altri disastrosi crolli.

Subito una di quelle figure d’improbabili ostetriche bardate con tute nere e gialle ha appena poggiato la mano sul capo del piccolo coprendola tutta, come a volerla proteggere nell’ultimo guado rischioso verso la luce. Quindi altre mani, nude e arrossate dal freddo oppure coperte da spessi guanti, hanno preso il bambino cingendolo alla vita, reggendogli le spalle coperte da una giacchetta azzurra. Lo hanno preso proprio come si fa quando si accoglie una nascita e così lo hanno restituito alla vita. Dopo si sono lasciati andare a un applauso, a un coro liberatorio di «bravo!» e lo hanno adagiato su una barella, per poi avvolgerlo nella coperta termica.

Poi è toccato alla madre che, nell’attimo stesso in cui veniva estratta dalla neve e dalle macerie, si è voltata verso il buco da cui era uscita indicando un punto dietro di sé: «Andate da mia figlia, sta nella stanza accanto». Indicazione decisiva: poche ore dopo anche la bambina è stata estratta via.

Non dimenticheremo facilmente queste immagini. Sono molto diverse da altre in apparenza simili, anche se possono evocarle, perché hanno aperto un varco dentro chi le ha viste. Ai più anziani potrebbero far tornare alla mente i fotogrammi sul salvataggio fallito del piccolo Alfredino Rampi a Vermicino, poi rubricate, per l’accanimento scomposto che per la prima volta spettacolarizzò in un’interminabile diretta lacrime e angoscia dei genitori, come deplorevole esempio di «televisione del dolore». Ma al contrario di quelle immagini, i video rilanciati dai network online sul salvataggio di madre e figlio della famiglia Parete, proprio come accade quando ci sono nuove nascite hanno fornito informazioni preziose e veicolato un messaggio di ottimismo, restituendo due vite intatte oltre 40 ore dopo lo schianto sull’hotel della slavina di neve e ghiaccio. 

A Giampiero Parete, uno dei due scampati per un pelo al disastro della valanga sull’hotel e il primo a lanciare un allarme purtroppo non accolto con la tempestività necessaria, hanno regalato la notizia del ritorno alla vita di suo figlio e di sua moglie. Con la speranza che nella stanza indicata dalla donna ci fosse, ancora viva, anche la loro figlia di sei anni. Dopo quelle immagini, e di sicuro incoraggiati dalle indicazioni che hanno dato, gli interventi di instancabili soccorritori hanno riportato in superficie altri tre bambini, tra cui la piccola dei Parete, e la fiducia di poter trovare ancora altri sopravvissuti.
È strano come, di fronte a una tragedia come quella risultata dalla combinazione delle scosse sismiche con la furia bianca di una valanga, a risultare decisivi appaiano pochi elementi essenziali che sono parte del nostro quotidiano. Le mani, quelle dei soccorritori intente a scavare, quelle tese per afferrare. Le voci, quelle di chi è rimasto sepolto, che si spera di poter captare e seguire come piste per poter trovare altre persone vive. E ancora le voci, ma di chi ha cercato di trasmettere l’urgenza di un intervento che non è arrivato come sarebbe stato sperabile. Il fumo uscito dalle macerie a segnalare altre presenze umane. Il fiuto dei cani adoperati per individuare i luoghi in cui scavare. Come a ricordarci che in momenti gravissimi, a contare è solo l’essenzialità dell’umano. E che il sostegno maggiore viene dalla speranza. 

«Speriamo, speriamo», era stato il mantra ripetuto da Giampiero Parete per tutta la giornata di giovedì. Prima aveva raccontato in ospedale a medici, infermieri e soccorritori l’incredibile svolta del suo destino che, se quel buco nel ghiaccio non gli avesse nuovamente partorito moglie e figli, certo avrebbe interiorizzato come propria colpa imperdonabile, eterno peso e macchia indelebile di sopravvissuto. Aveva ragione a dannarsi per com’era andata, perché la famiglia Parete, tutta insieme, era stata sul punto di scampare alla valanga: si era deciso di anticipare la partenza a causa del maltempo, erano stati fatto i bagagli, il padre, la madre e i due figli erano già saliti in auto, motori accesi, partenza imminente. Ma poi la sorte ha mandato loro un’impiegata dell’hotel ad avvisarli che non era proprio il caso di mettersi in viaggio perché le strade erano ostruite dalla neve, e certo sarebbero stati più al sicuro tornando indietro. Così hanno fatto, quindi sono scesi dall’auto, i bambini per giocare un po’ sotto una tettoia, la mamma per sedersi nella hall a scacciar via una leggera emicrania per la quale ha chiesto al marito di andarle a prendere un’aspirina. Fuori, in auto.

Ecco, Giampiero Parete ci è andato, è uscito dalla hall. E proprio allora la valanga si è abbattuta sull’hotel, trascinandone via i piani superiori, seppellendo sotto un’alta coltre di neve la hall e il primo piano e tutte le loro suppellettili, con ghiaccio, rocce e tronchi di alberi trascinati giù e trasformati in groviglio inestricabile di detriti. Lui, accanto all’auto, l’ha scampata per un soffio e subito non si è dato pace cominciando a lanciare urla che il silenzio assoluto tipico dopo i disastri gli restituiva come eco sinistra di un destino già deciso a sigillare un finale feroce. Ha continuato a lanciare messaggi con il cellulare, a chiamare senza essere ascoltato, a trasmettere infine il suo allarme al proprietario del ristorante di Pescara dove fa il cuoco. Ha aspettato al gelo, insieme al compagno che la sorte gli ha messo affianco come momentaneo altro sopravvissuto. Poi sono arrivati, scavando con le mani, gli uomini del soccorso alpino, con gli sci e le pelli di foca. Dieci ore dopo, alle 4 del mattino.

Ad aiutare Giampiero Parete, a rendere possibile il ritrovamento dei suoi figli e di sua moglie, ricomponendo una famiglia che si credeva spezzata dev’essere stato Iddio, o per chi non ci crede il destino, o per chi non è nemmeno fatalista sarà stata fortuna, o un puro caso. Questo nessuno può dirlo né mai potrà. Resta però tutta da scrivere una parte del racconto della storia di questa famiglia e di tutti gli altri incappati nella malasorte di aver scelto una vacanza in un bellissimo hotel diventato trappola mortale. È il finale, che dovrà dire con chiarezza i perché degli allarmi inascoltati o non compresi, degli spazzaneve sollecitati, promessi e non inviati, dei coordinamenti mancati. E’ la parte più importante di tutta questa storia e guai se non dovesse arrivare allineandola alle troppe vicende italiane senza finale.
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