Se la pace non è cercata da chi fa la guerra

di Fabio Ciaramelli
Mercoledì 10 Aprile 2024, 23:15 - Ultimo agg. 11 Aprile, 06:00
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Sembrerebbero più che maturi i tempi per mettersi proprio tutti a perseguire la pace. Riprendendo un’espressione talmudica che dava il titolo all’ultimo romanzo di Primo Levi, verrebbe proprio da aggiungere: “se non ora, quando?”. Eppure, nonostante tutto ciò, neanche ora si fa strada un’ampia, estesa e corale invocazione della pace. Al contrario, il “pacifismo” sembra diffondersi solo dalle nostre parti (soprattutto in chiave preelettorale), dove si fa leva sullo choc, l’indignazione, la rabbia e la rivolta per i lutti provocati dalla guerra, per poi però sorvolare quasi sdegnosamente sul dato di fatto, fastidioso ma innegabile, che la pace dovranno farla proprio quelli che viceversa non mostrano alcuna intenzione d’interrompere le ostilità: cioè russi e ucraini, da un lato, e Hamas e Israele, dall'altro. Nessuno di loro, allo stato, sembra neanche lontanamente disposto a intravedere un’interruzione degli scontri in atto.

Putin ha certamente parlato più volte e anche di recente di “pace russa”, basandola su “denazificazione e neutralizzazione dell’Ucraina”. (S’è ora saputo che anche Donald Trump ha un suo piano di pace per mettere fine alla guerra: costringere Kiev ad accettare il fatto compiuto, rinunciando a Crimea e Donbass). Ma come negare che una simile “pace” non significhi altro che la continuazione della guerra con altri mezzi?

Anche in Ucraina esiste un piano di pace, preparato da Zelensky e dai suoi uomini, che prevede il ripristino dell’integrità territoriale del Paese attraverso il ritiro delle truppe russe e il ritorno all’ordine mondiale basato sulle regole. Anche in questo caso, però, la realizzazione della “pace” non può prescindere dalla continuazione della guerra.

Le cose non cambiano in Medio Oriente, dove la logica che muove i belligeranti è egualmente lontana da qualunque prospettiva di pace, nonostante l’annunciato ritiro delle truppe israeliane dal Sud della striscia di Gaza, accompagnato però dalla conferma dell'operazione a Rafah, il che spiega l’ennesimo stallo dei negoziati per la tregua. La pace a Gaza, insomma, forse la vogliono tutti, certamente però non le parti in causa impegnate nella guerra. Ciò vale senz’altro e da gran tempo per Hamas e per i suoi sostenitori diretti e indiretti, soprattutto l’Iran, che fanno della distruzione dello Stato d’Israele – definito sprezzantemente l’entità sionista – il proprio principale obiettivo politico.

Ma ormai vale anche sempre di più anche per Israele, dove già negli ultimi anni e poi in modo esponenziale dopo i pogrom del 7 ottobre s’è progressivamente ridotto lo spazio del pacifismo militante, soppiantato dal bellicismo della destra nazionalista e religiosa, che ha numericamente surclassato gli esponenti del sionismo laico e socialista.

C’è però da aggiungere che, tra quanti vivono in Israele, l’emarginazione delle prospettive pacifiste s’è ormai fatta strada anche a sinistra, cioè ben oltre i sostenitori del governo Netanyahu. Lo ha mostrato chiaramente Federico Rampini in un recente articolo del Corriere della sera, in cui ha riferito le parole d’un autorevole storico di sinistra come Benny Morris, per il quale Netanyahu, benché da lui considerato “un incompetente e un codardo”, tuttavia “ha ragione su un punto, e su questo ha l’appoggio della maggioranza di noi israeliani, me compreso: dobbiamo andare fino in fondo nella distruzione di Hamas”.

Poiché sono queste le posizioni effettive dei belligeranti, per i quali la pace non è affatto il primo obiettivo, non è certo per mancanza di sensibilità morale se molti di noi restano perplessi e interdetti di fronte ai proclami pacifisti di quanti in Occidente s’oppongono all’odierno imperversare dei venti di guerra e si stracciano le vesti poiché nessun leader politico riesce a imporre negoziati di pace o magari almeno una tregua. I pacifisti hanno ragione nel constatare realisticamente che la guerra, col suo seguito di morte e devastazione, non risolve alcun problema, anzi ne crea infiniti altri. Sennonché, è proprio una considerazione realistica delle cose che mostra il carattere astratto e ineffettuale, quando non smaccatamente strumentale, di prese di posizione pacifiste esterne alle parti in causa, che non a caso i belligeranti si guardano bene dall’abbracciare. Emerge allora una domanda inquietante: non sarà che i veri protagonisti delle odierne guerre non invocano la pace e non si sbracciano per conseguirla esattamente perché ciò che gli sta a cuore non è per nulla la pace, ma unicamente la vittoria? Che poi quest'ultima non appaia affatto a portata di mano – e neanche pienamente realizzabile – non promette nulla di buono.

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