Lo sguardo miope di chi doveva vedere

di Francesco Durante
Mercoledì 4 Maggio 2016, 00:19
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 Che cosa sapevamo del Parco Verde di Caivano prima che, pochi giorni fa, diventasse l’epicentro di una delle più clamorose e terribili storie nere degli ultimi decenni? È presto detto: sapevamo già (quasi) tutto. Sapevamo che è un’enorme piazza di spaccio. Che sta ben dentro la Terra dei fuochi. Che è un non-luogo senza legge né senso situato in un punto qualsiasi della sterminata periferia a Nord di Napoli. Ancora: avevamo visto più volte in televisione una preside simpatica e probabilmente eroica, Eugenia Carfora – la «preside di ferro» – costretta ogni giorno a combattere contro l’evasione scolastica.

Ad andare casa per casa a informarsi del perché di un’assenza, a dannarsi l’anima per non far chiudere quel fortino assediato e più volte vandalizzato. Né era, la preside, l’unico personaggio alla ribalta della cronaca, perché c’era anche don Patriciello, il prete-coraggio le cui denunce riempiono libri e speciali tv e sono note a tutti i media. Al Parco Verde sono andati in pellegrinaggio ministri, uomini e donne di governo venuti da Roma e da Napoli, e i giornalisti, almeno quelli campani, lo conoscono da anni.

E allora perché tutto quello che veniamo a sapere in queste ore ci fa l’effetto di una bomba che ci scoppi accanto all’improvviso? Perché gli orrendi particolari della vicenda degli sventurati Fortuna e Antonio ci colpiscono così duramente, se già da quasi due anni avevamo avuto il sentore che qualcosa di terribile era accaduto tra quei palazzi? Tra gli effetti dell’eccesso di comunicazione c’è anche quello di sterilizzare, facendola diventare un genere e una convenzione, la viva carne delle tragedie. Tutto si trasforma in una specie di format televisivo, chiamiamolo «format del dolore».

Il Parco Verde, nell’immaginario collettivo, era assurto a quella élite di luoghi orrendi – come le Vele di Scampia, o certi vicoli della Sanità o, fuori dalla Campania, il Corviale a Roma e lo Zen a Palermo – di cui si sa e si accetta che contengano tutto il male che possiamo immaginare: un male «obbligatorio», qualcosa di metafisicamente originario e non emendabile. Sappiamo tutti che esiste, o almeno temiamo che esista – come fosse l’inferno – ma facciamo finta che sia vuoto. Ci basta contemplarne le piaghe attraverso lo schermo tv, e magari può perfino essere un esercizio consolatorio, giacché ci fa considerare quanto siamo stati fortunati a non vivere lì, a non dover pensare che tra Bagdad e Napoli la differenza non sia poi così grande.

In una certa misura, per vile che possa essere, tutto questo fa parte delle leggi dei media, e, ripeto, è perfino una forma di compensazione, perché è comodo pensare che il male accada sempre e solo in certi posti che, così, è come se si facessero carico di tutti i guai, risparmiandoceli. Piccola, comprensibile viltà. Quello che però non risulta in alcun modo comprensibile è la distanza veramente abissale che sembra estendersi non solo tra il Parco Verde e Roma, o tra il Parco Verde e Napoli, ma perfino tra il Parco Verde e il municipio di Caivano, cioè il terminale più prossimo a quella tragedia, il luogo dove si dovrebbe conoscere ancora più a fondo ciò che oggi tutta Italia, inorridendo, è venuta a sapere. Com’è possibile che gli assistenti sociali che di sicuro, malgrado i tagli alla spesa pubblica, avranno lavorato da quelle parti, non sapessero nulla della storia che sta venendo fuori? Com’è possibile che questa partita l’abbiano potuta giocare soltanto le forze dell’ordine e la magistratura?

Com’è possibile che la scuola non abbia saputo intercettare nulla di tutta questa vicenda? Com’è possibile, in una parola, che si accetti il fatto che il Parco Verde è un autentico disastro sociale, ma si rinunci ad andare più a fondo, a scoprire i fili segreti dell’orrore, della paura, della disperazione e dell’ignoranza? I carabinieri sono andati, hanno piazzato le microspie, gliele hanno sabotate ma hanno continuato a lavorare, hanno preso iniziative e alla fine la verità è venuta fuori. Ma possiamo davvero pensare che l’orrore del Parco Verde possa riguardare esclusivamente le forze dell’ordine? Possiamo davvero pensare che anche chi ha in carico, diciamo così, la manutenzione della vita quotidiana dei suoi concittadini, possa far finta di non vedere, e accontentarsi del fatto che quella realtà, bene o male, è stata denunciata così tante volte, e sia pure in modo generico, da esser diventata perfino noiosa? Se è vero – e secondo me lo è – che tutto il Parco Verde, o per lo meno tutto quel palazzo, è colpevole e complice degli orchi assassini, è anche vero che tutta questa storia ci pone davanti a una raggelante assenza.

Non tanto dello Stato, inteso come forze di polizia e magistrati che hanno fatto e stanno facendo a posteriori il loro dovere, quanto delle sue più capillari articolazioni territoriali.
Incapaci di capire quello che stava succedendo, e di inventarsi una qualche forma di rimedio. Il tema è dei più inquietanti, perché noi tutti sappiamo che sì, Roma deve fare molto di più; ma non sarà mai abbastanza se, per paura o per ignavia, per pigrizia o per lassismo, non ce la metteremo tutta anche noi che dentro o vicino a questi inferni ci abitiamo, e che ci accontentiamo di denunciare il male così: grosso modo, a spanne, in maniera rituale, e senza avere il coraggio di fare davvero il nostro dovere. Maildurante@gmail.com
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