L’Europa e il divorzio di ideali e interessi

di Massimo Adinolfi
Sabato 25 Giugno 2016, 23:33 - Ultimo agg. 26 Giugno, 15:48
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 Qual è il significato storico e politico dell’Unione europea? Ci attendono, dopo la folgore del referendum britannico sulla Brexit, settimane, forse mesi e anni di grande incertezza, ma più ancora dell’incertezza che peserà sui mercati, a preoccupare è l’incertezza circa quello che l’Ue potrà ancora significare per i cittadini europei. Senza prendere sul serio questa domanda di senso, tutto il resto difficilmente basterà. In questi anni il discorso sul progetto comunitario ha preso due strade.

Lungo nessuna delle due l’Unione ha compiuto effettivi passi avanti, e per la via che i Paesi europei avrebbero dovuto imboccare sono invece comparse le erbacce. Bisogna tornare al 2005, all’anno in cui la Francia e l’Olanda bocciano, in un referendum, la nuova Costituzione europea. I commenti di allora sono gli stessi di oggi (benché la decisione britannica di giovedì scorso sia ancor più deflagrante di quella francese). Ma soprattutto, da allora ad oggi nessun progresso è stato fatto. Il cammino dell’integrazione europea si è fermato quel giorno. Poco dopo, le economie occidentali vengono investite dalla crisi dei subprime americani, e si infilano in un tunnel recessivo di cui vediamo solo in lontananza, molto in lontananza, l’uscita.

Di fatto, per Paesi come l’Italia è ancora una chimera il ritorno ai livelli pre-crisi. Cosa succede, allora, in tutti questi anni? Vengono imbastiti due discorsi. Quello di gran lunga dominante è il discorso a cui è affidata la legittimazione delle scelte di politica economica e finanziaria che i governi europei sono chiamati a prendere. Sarebbe brutale, e anche falso, dire: è il discorso della troika, ma sta il fatto che alle opinioni pubbliche arriva così. E così soprattutto arriva agli strati più deboli della popolazione, quelli impoveriti e spaventati dalla crisi: per loro l’apertura dei mercati e la libera circolazione non sono nuove opportunità ma solo nuove incognite



In ogni caso, è un discorso difficile, perché i fondamentali dell’economia dei Paesi dell’area euro sono molto diversi: diversi i sistemi produttivi e i rispettivi mercati del lavoro, diverse le condizioni di finanza pubblica e i livelli di indebitamento pubblico e privato. Ovviamente, la materia rimane una materia prevalentemente economica, ma proprio perché si coltiva l’illusione di una soluzione puramente economicistica dei contrasti di interesse fra i Paesi deboli della periferia e quelli forti che ruotano intorno alla Germania, si lascia libero corso, per un inevitabile contraccolpo, ad una chiave di lettura sempre più nazionalistica della fase. E tra una paura vicina e una speranza lontana è sempre la prima a dominare.

D’altra parte, l’Europa rimane l’area del mondo che offre ai suoi cittadini la maggior quota di diritti, di libertà, e anche di sicurezza. Ma questo dato evapora quasi sempre in un secondo discorso puramente idealistico, condotto in termini sempre più astratti, fumosi, a colpi di valori e di principi, con evocazioni e aspirazioni imprecisate, con contorno di padri nobili ed eredità spirituali del tutto scollegate, però, dal terreno concreto della storia e della politica. Questo terreno è dunque quello dove sorgono, ormai, soltanto erbacce. Sappiamo tutto dello spirito europeo – o almeno: c’è chi ne sa discettare – ma quotidianamente ci imbattiamo in una realtà molto più prosaica, dal respiro sempre più corto, e più gretto.

Se una cosa l’Europa è stata, nel passato, è proprio il luogo di una mediazione che non sembra più in grado di esercitare. Le due strade – dell’interesse e dell’ideale – divaricano, e la sintesi storica e politica che dovrebbe congiungerle insieme non è più trovata. Ma era chiaro a tutti, fin da principio, che qualunque cosa l’Unione fosse diventata, lo sarebbe diventata solo mantenendo la capacità di piegare alle ragioni di una politica internazionale di pace e di prosperità gli egoismi nazionali, e di avvicinare le altrimenti velleitarie idealità alla realtà concreta di vita dei popoli. Era chiaro a Roma, quando furono firmati i trattati, ma lo è stato in tutti i momenti di svolta della recente storia europea. Compreso l’euro. Si ha ragione a dire che una moneta unica non può reggere da sola, ma chi ha mai dubitato che l’euro fosse figlio di condizioni politiche, ben prima che di condizioni economiche?


Queste ultime non erano, e non sono, ottimali. Bisognava però pagare un prezzo perché, dopo l’89, non prevalessero spinte disgregatrici. A chi è stato pagato? Alla Germania, perché rimanesse europea, ottenendo però il risultato opposto di aver reso tedesca l’Europa? Può darsi. Ma se ad uscire sono i britannici, che sono sempre rimasti ancorati alla sterlina, e che hanno potuto godere per questo di alcune condizioni di vantaggio, non vorrà dire che più dell’euro ha potuto la sempre più grave miopia politica, l’incapacità dei governi di perseguire, oltre i confini dello Stato nazionale, obiettivi di crescita, di espansione, di progresso, di fiducia, l’adozione di policies sempre più prive di tutto questo? Noi oggi ci chiediamo quale sarà il futuro dell’Unione. Nessuno lo sa.

In realtà, nessuno lo sapeva o era in grado di dirlo anche il giorno prima del voto.
Ma se il discorso politico pubblico si riempie di paure, non possono certo essere gli operai della working class britannica a trovare il coraggio di dichiarare che, a dispetto di tutte le difficoltà, l’Unione europea esiste e può ancora esistere. Chi, allora? Chi farà questa dichiarazione? Possiamo attendercela da Renzi, Hollande, Merkel, che si vedono domani? C’è da augurarselo. Ma il metodo intergovernativo, che finora ha consentito (vedi le politiche migratorie) che ci si accordasse in ventotto, salvo poi rimanere in quattro o cinque a dar seguito alle decisioni prese, è evidente che non basta più. Ci vuole tutt’altra forza, e volontà politica. Ma qual è, oggi, la volontà politica dei popoli europei?
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