La lezione di Franco e il coraggio dell’ironia

di Andrea Di Consoli
Lunedì 20 Maggio 2024, 23:29 - Ultimo agg. 21 Maggio, 06:43
4 Minuti di Lettura

Nel momento della commozione per la scomparsa di Franco Di Mare vale la pena di provare a superare l’inevitabile ondata emotiva – che ha coinvolto una larga fetta di popolazione italiana – per isolare alcuni insegnamenti che questo straordinario giornalista ci lascia in eredità con la sua esperienza di uomo e di professionista.

Il primo insegnamento riguarda il rapporto con la malattia. Per quanto Di Mare abbia anche espresso alcuni legittimi e umanissimi rammarichi, è indubbio che di fronte alla prova più estrema il giornalista napoletano abbia fatto prevalere la speranza, la fiducia, la gratitudine, il coraggio. Ha dimostrato coraggio, Di Mare, e lo ha dimostrato accettando il destino con una profonda consapevolezza della condizione umana, figlia di una radicale dimestichezza con la vita, la realtà, la storia, soprattutto nei suoi risvolti più atroci e cruenti.

Il secondo insegnamento ha a che fare con l’apertura sul mondo. Il grande inviato di guerra e il popolare conduttore televisivo conosceva certamente l’anima provinciale dell’Italia, le sue beghe, i suoi tanti campanilismi – e lo testimoniano i suoi romanzi –, ma sempre questo sguardo provinciale, “locale”, si era arricchito di uno sguardo attento sul mondo, sulla dimensione internazionale. Di Mare era napoletano dell’anima ma, come tutti i più grandi napoletani, sentiva il mondo, e sapeva capirlo, raccontarlo, farlo suo. Era figlio della provincia ma non fu mai provinciale, proprio come tutti i più illustri napoletani di sempre.

Il terzo insegnamento chiama in causa la consapevolezza, da parte di chi ha un ruolo pubblico, specialmente nella cultura, nell’arte e nella comunicazione, che quando si diventa popolari si ha una grande responsabilità, e che questa responsabilità richiede serietà, credibilità, rigore, autorevolezza. Chi è popolare entra nelle case e nell’immaginario delle persone, e questo privilegio va onorato fino in fondo. E di questo Franco era consapevole, e lo dimostra la gigantesca ondata di dolore e di affetto – e di gratitudine – che ha circondato la sua malattia, la sua morte e il suo funerale.

Il quarto insegnamento che Di Mare ci lascia in eredità è un’idea di controllo dell’emotività. Una delle caratteristiche del suo modo di lavorare era una ferma passione civile ma anche una straordinaria capacità di dominare l’ansia, la paura, la rabbia – quella che i filosofi antichi chiamavano passione. In diretta Di Mare aveva il pieno controllo della situazione, e questo infondeva sicurezza, coraggio, protezione. Da dove gli veniva questa capacità di governo delle emozioni? Anche in questo caso, quasi sicuramente, da Napoli. Di Mare, infatti, era figlio di “ostricari”, e dunque si può dire che sia nato e cresciuto in acqua, per non dire sott’acqua. Ebbene, chi sa lavorare sott’acqua sa bene quanto sia importante mantenere la calma, e non sprecare inutilmente le energie, perché l’agitazione è un pericoloso spreco di ossigeno. Ecco, il suo proverbiale controllo sulle emozioni, durante le dirette, era figlio del suo saper stare sott’acqua sin da bambino a Mergellina, dov’è cresciuto.

Un altro grande insegnamento che Di Mare ci lascia in eredità riguarda l’importanza per noi europei della guerra nella ex Jugoslavia. Tra le tante guerre che Franco ha raccontato, quella è stata per lui la più determinante, perché quella guerra avvenne a pochi chilometri da casa nostra. Tant’è che più volte – in pubblico e in privato – si domandava se l’Italia fosse davvero immune da una simile deriva di odio. In quella guerra, in quel deserto, inoltre, Franco trovò un fiore, e quel fiore si chiama Stella, che ieri ha detto parole struggenti durante il funerale.

Lo si è detto poco e male, ma Franco Di Mare è stato un grande napoletano, anche se del genius loci napoletano non aveva alcuna tendenza folcloristica o oleografica. E infatti non amava le battute facili, le ostentate goliardie, le saggezze un po’ populiste. Anzi, di fronte alle cialtronate e alle facilonerie sapeva anche essere severo e impaziente. Ma era napoletano fino in fondo, perché conosceva l’ironia e l’autoironia, e perché sapeva che solo i cretini si prendono sul serio e pensano di avere sulle proprie spalle le sorti del mondo. Ecco perché è stato così amato dagli italiani: perché ha preso sul serio la vita e il suo dramma storico, ma non la follia del mondo e del destino umano.

© RIPRODUZIONE RISERVATA