Parlamentarie M5S, che flop:
per Luigi Di Maio soltanto 490 clic

Parlamentarie M5S, che flop: per Luigi Di Maio soltanto 490 clic
di Fulvio Scarlata e Francesco Lo Dico
Domenica 4 Febbraio 2018, 13:19 - Ultimo agg. 16:36
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Candidato premier con 490 clic: per Luigi Di Maio non proprio un'investitura. Anche perché è stato abbondantemente superato da almeno una decina di candidati in tutta Italia. E perché per gli iscritti erano possibili ben tre preferenze, segno che neppure nel suo collegio l'uomo di Pomigliano ha avuto un plebiscito. Ieri sera, a due settimane dalla consultazione, il Movimento ha ufficializzato il dato del voto on line: solo 40mila i votanti, per un totale di 92mila clic. I risultati, tenuti per troppo a lungo oscurati, raccontano di un mare di disperati, lanciatisi nell'avventura verso il Parlamento, quasi come migranti nel Mediterraneo, alla fine ottenendo solo il proprio voto.
Il 21 gennaio l'Ansa, alle 17:02, batteva un'agenzia precisa: «Di Maio: i risultati delle parlamentarie arriveranno stasera». Indicazione univoca per tutti, tranne per gli organizzatori della consultazione. Perché i risultati sono arrivati nella serata, ma quella di ieri quasi due settimane dopo il voto on line. E i dati non sono proprio esaltanti: 40mila votanti a fronte dei due milioni di persone che si sono mosse per andare nei seggi e scegliere il segretario dell'odiato Pd. E lui, il candidato premier, che non sbanca: solo 490 clic nel suo collegio. Un quarto dei 2mila voti complessivi del Campania 1-01, non proprio un plebiscito. Anche perché le preferenze erano tre, significa che neppure nel collegio più sicuro i votanti 5 Stelle hanno dato una fiducia in massa al candidato primo ministro. Che è stato clamorosamente sorpassato, in numero di preferenze, dentro il Movimento. Perfino in Campania, nel Senato - Campania 3 con Sergio Puglia che ha avuto 536 clic.

Altrove i numeri sono eclatanti: al Senato nel Lazio Paola Taverna arriva a 2136 voti seguita dai 1173 di Paola Fattori, nel Lazio - Camera - travolgono Di Maio non solo la capolista Carla Ruocco a 1691, ma anche Federica Daga (1027) (mentre Emanuele Dessì, il candidato finito nella bufera per il caso del canone d'affitto a 7 euro, ha ottenuto 144 voti), Stefano Vignaroli (914), Enrico Massimo Baroni (822) che non sono proprio star dei media. In Piemonte Alberto Airola arriva a oltre 600 clic, Danilo Toninelli super i 500 in Lombardia, in Puglia Barbara Lezzi sfiora i mille clic, Nicola Morra in Calabria va a 564, in Sicilia Michele Giarrusso supera i 600 e Nunzia Catalfo i 500. In termini percentuali, però, solo Toninelli, al 33% dei voti, Airola (30%), Fico (28%), Lezzi (24,2%) superano il 24% di Di Maio.

In Campania 1-01 sono bastati 86 voti a Iolanda Di Stasio per entrare in lista. Roberto Fico è capolista a Napoli con 315 clic, mentre ne bastano poco più di cento per andare quasi sicuramente alla Camera a Gilda Sportiello e Alessandro Amitrano e 63 per aspirare a un posto a Flora Frate, al centro della polemica dei meet up perché pressoché sconosciuta. Meno di cento voti permettono a Sabrina Ricciardi di correre per il Senato in Campania 1, gli stessi permettono a Sergio Vaccaro, secondo in Campania 2, quasi di vedere Roma, con altri due in lista sotto quota 100 clic. In Campania 3 rischia, invece, di rimanere fuori Andrea Cioffi con 477 voti, quasi quanto Di Maio, ma terzo in lista. Complessivamente in Campania sono 10.677 i clic alla Camera e 8951 al Senato, ma comprendono più preferenze.

Accanto ai più votati, l'esercito di disperati davvero convinti di andare in Parlamento e che si sono ritrovati con una manciata di voti, spesso solo uno, il proprio. Per restare in Campania, complessivamente sono la metà dei candidati alle parlamentarie hanno superato i 10 voti. Questione di collegio, perché in quello dell'America Meridionale Ivana Mainenti passa con 3 clic, nel Nord America Emanuel Mazzilli arriva a 13, per il resto del mondo ce ne sono voluti 23 ad Adele Castagnaccio per avere la candidatura.

Tutto risolto, dunque, con la pubblicazione dei dati dopo la valanga di ricorsi? Non proprio. Perché siamo all'alba di una guerra giudiziaria che si preannuncia lunga e tortuosa. Per capire che cosa bolle in pentola, bisogna tornare al fronte della mega-diffida, guidato dall'avvocato Tommaso Notaristefano in Puglia, di cui vi abbiamo raccontato ieri: 700 ricorrenti, esclusi dalle Parlamentarie e in continuo aumento, pronti ad intraprendere azioni civili e penali in grado di invalidare le primarie grilline, ossia il trionfo della democrazia diretta. Di contestazioni ce ne sono a macchia d'olio in tutta Italia. Vale la pena ricordare qui solo il caso di Francesco Mollame, in corsa a Marsala con il M5s, ma già candidato sindaco a Partinico con l'Mpa di Lombardo. O quello di Leonardo Franci, iscritto alla Lega fino al 2017, ma candidato M5s nel collegio di Siena, in spregio al regolamento delle Parlamentarie. Ma la vera questione è quella che i legali definiscono la «trappola imperfetta». Memori dell'ondata di ricorsi perduti contro gli espulsi all'epoca del vecchio Movimento del 2009, «i vertici del nuovo partito creato a fine dicembre hanno escluso di fatto dallo Statuto ogni possibilità di appello da parte dei ricorrenti», spiega l'avvocato Borrè che cura più di 500 cause di «militanti traditi».
 
A spiegare bene il meccanismo, sono proprio le centinaia di lamentazioni emerse in tutta Italia: «Sono stato escluso senza una motivazione», hanno detto all'unisono tutti i «rinnegati». Non è un caso. Gli esclusi non avranno mai risposta per una semplice ragione: lo Statuto non prevede comunicazioni a chi viene fatto fuori, perché sulle candidature conta solo il «parere vincolante» del capo politico Di Maio. Il nuovo Statuto grillino fa convergere in buona sostanza accusatore e giudice nella figura della stessa persona. «Ma dato che l'accusa non viene formalizzata dal giudice-accusatore, di fatto non può esistere neppure la difesa, con l'obiettivo di rendere impossibile opporsi», spiega Lorenzo Borrè. Che cosa significa? Significa che se un candidato è stato escluso per alcuni rumors su presunti reati questi sarebbe condannato alla gogna senza potersi difendere in un Tribunale. Un orrore. Anche in questo caso, però, i grillini hanno fatto male i loro conti. «Al di là di quello che dice lo Statuto, contano i principi di giurisprudenza che consentono di impugnare qualsiasi provvedimento che lede il diritto di un associato. A maggior ragione se lo Statuto in questione nega il diritto di difesa», conclude Borrè. Almeno, ai tempi della foga giustizialista del Vaffa Day, si urlavano nomi ed accuse in pubblica piazza. Oggi, è il caso di dire con Di Maio, siamo al «Venezuela di Pinochet».
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