Caterina Balivo e il vino: «Non bevevo, ora mio figlio ha il nome di un vino»

«Nei miei programmi mi piace valorizzare la straordinaria produzione vinicola italiana nel rispetto della sobrietà»

Caterina Balivo
Caterina Balivo
di Maria Chiara Aulisio e Gerardo Ausiello
Venerdì 1 Marzo 2024, 10:00 - Ultimo agg. 8 Marzo, 10:24
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Orgogliosamente partenopea, fiera delle sue origini e di tutto ciò che rappresenta la napoletanità, un marchio di originalità e fascino che nei secoli ha ammaliato popoli e sovrani. Per questo suo forte tratto identitario, Caterina Balivo ricorda quello che è stato definito il vino del re: il Pallagrello nero, un vitigno autoctono con una lunga e prestigiosa storia, talmente seducente da far innamorare i Borbone e in particolare Ferdinando IV (una lapide in suo onore si trova ancora oggi in località Monticello a Piedimonte Matese). Balsamico, aromatico, complesso all'olfatto e intenso al gusto, con note che richiamano i frutti rossi ma anche le spezie, ottenne gloria e onori tra Settecento e Ottocento per poi piombare in un incubo: dopo l'Unità d'Italia, infatti, finì nel dimenticatoio lasciando il posto al Nebbiolo ma è di recente risorto grazie ad alcuni coraggiosi produttori casertani (Balivo è nata a Napoli ma cresciuta ad Aversa, nel cuore della Terra di lavoro) a cui va il merito di aver reso possibile un'impresa ardua. Se invece fosse un bianco, la conduttrice televisiva, sempre fresca, travolgente e spontanea, sarebbe un Vermentino, sardo o meglio ancora toscano, che si esalta soprattutto nella malinconica vitalità di Bolgheri. Un vino sorprendente per la sua ricchezza di profumi floreali e agrumati, arricchito da una spiccata sapidità, mix fatale per chiunque si lasci avvicinare. A quel punto diventa quasi impossibile non restarne ammaliati, come l'irresistibile canto delle Sirene omeriche. Ma se volessimo osare ancora, spingendoci oltre le Colonne d'Ercole dell'enologia, potremmo tentare l'azzardo di un vino da dessert: allora la “dolce” Caterina non può che somigliare all'Aleatico di Gradoli che si produce un po' più a nord, nella provincia di Viterbo, e si accompagna ai dessert al cioccolato. Senza mai stancarsi di assaporarlo.

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Bianco, rosso o bollicine?
«Rosso e bollicine».

Primo bicchiere?
«Un calice di champagne quando ho compiuto 18 anni».

Occasione speciale.
«In realtà bere non mi piaceva ma era il mio compleanno e un brindisi ci voleva».

Poi però si è appassionata.
«Direi che il mondo del vino ho cominciato ad apprezzarlo intorno ai trent'anni».

Da adulta quindi.
«Eppure a casa mia la bottiglia a tavola non mancava e non manca mai».

Chi beve più volentieri?
«Un bicchiere durante i pasti in famiglia lo gradiscono tutti.

Tra l'altro mio padre il vino lo produce».

Dove?
«A Trentola, in provincia di Caserta, a pochi chilometri da Aversa, la mia terra d'origine. Il nonno è proprietario di una grotta di tufo dove papà ha allestito il suo quartier generale. Ha anche la pigiatrice per pressare l'uva che raccoglie».

Allora fa sul serio.
«Talmente serio che quando a Natale è venuto a cena da noi, il vino se l'è portato da casa, dice che ormai beve solo quello».

Com'è? Buono?
«Classico vinello contadino, autentico, genuino, senza additivi. A mio marito piace molto: su tre generi è l'unico che lo apprezza sul serio per la gioia di papà. Io invece propendo per quello imbottigliato».

Preferenze?
«Il Sangiovese senza dubbio ma pure il Pinot Nero lo trovo piacevolissimo: bassa gradazione alcolica, va bene anche con il pesce. Secondo me sbaglia chi ancora ritiene che il rosso debba essere abbinato solo a carne e salumi».

Dal rosso alle bollicine.
«Ho scoperto uno champagne strepitoso, per caso, dal pizzicagnolo sotto casa, me l'ha consigliato lui. Si chiama “Encry”, lo producono due italiani, fatto piuttosto insolito per la zona ma è proprio questo che mi ha convinta a provarlo. Ormai lo compriamo quasi sempre».

Se Caterina Balivo fosse un rosso secondo noi sarebbe un Pallagrello.
«La verità? Non lo conosco ma vado a comprarlo subito. Devo assolutamente provarlo».

Però ci ricorda anche il Vermentino: bianco, fresco, vivace.
«Se lo dite voi... In ogni caso è tra i bianchi che preferisco. E poi andiamo in vacanza in Sardegna, lì non si scappa: Vermentino pure a colazione».

Il vino è mai entrato nei suoi programmi tv?
«Come no. Quando conducevo “Detto fatto” nel cast avevo proprio un team di esperti che realizzava tutorial ad hoc sull'argomento».

Professionalità e competenza.
«Necessarie. Volevamo spiegare al grande pubblico i segreti e il fascino che si nascondono in una bottiglia. Con una raccomandazione: qualità e non quantità».

Poco ma buono insomma.
«Certo. Il nostro obiettivo era esattamente questo: valorizzare la straordinaria produzione vinicola italiana nel rispetto della sobrietà».

Qualcuno ha definito il vino «portatore sano di emozioni».
«È vero, sono d'accordo. Ancora mi ricordo qualche puntata con Gianmarco Tognazzi in studio, produttore e animatore di un'azienda sostenibile tra Lazio e Toscana. Un progetto dedicato al vino nel nome del grandissimo Ugo».

Oggi che conduce La volta buona (tutti i giorni alle 14 su Rai1) ai suoi ospiti invece offre il caffè. Le sembra giusto?
«Piacerebbe anche a me sostituirlo con un calice di rosso e un bel tagliere di salumi ma l'orario della trasmissione non credo sia proprio quello giusto. Volendo potrei organizzare un light lunch».

Due ore di diretta quotidiana, il tempo ci sarebbe.
«Il tempo è sempre poco soprattutto quando - come noi - offri agli ospiti l'opportunità di raccontarsi e dire cose che mai avrebbero pensato di tirare fuori. In ogni caso sono molto soddisfatta dei risultati: il programma funziona e funziona anche bene».

Torniamo al vino.
«Ne ho uno del cuore».

Quale?
«Guidalberto, annata 2012, Tenuta San Guido. Il fratello minore del Sassicaia per intenderci».

Del cuore perché?
«Mio figlio si chiama Guido Alberto ed è nato nel 2012. Abbiamo aspettato che uscisse giusto quell'annata per comprare un paio di bottiglie. Gliele regaleremo a diciott'anni. Ci ringrazierà». 

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