Napoli-Roma, non è cambiato nulla

di Maurizio de Giovanni
Giovedì 30 Ottobre 2014, 23:37 - Ultimo agg. 23:39
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In molti lo pensammo subito. Prima che le notizie terribili diventassero tragiche, quando ancora non si sapeva che avremmo pianto un ragazzo morto, lo pensammo. Quando credevamo ancora che si trattasse dei soliti disordini, solo in forma più grave ed estesa, lo pensammo subito che sarebbe arrivato il giorno in cui questa partita sarebbe stata in calendario.



E siccome non conoscevamo ancora le ore di angoscia, non avevamo visto i servizi di aggiornamento dall’ospedale, gli illusori miglioramenti e i terribili ritorni a una realtà che non avrebbe avuto soluzione, pensammo che la cosa più grave sarebbe stata questo giorno, e gli inevitabili problemi di gestione dello stesso che ci sarebbero stati. Pensammo a tutti questi criminali che col pallone nulla hanno a che fare, ma che cercano occasioni per nascondersi nella massa di quelli come loro, assetati di sangue e devastazione; pensammo a questo popolo infame e distruttivo, qualunque sia la bandiera dietro la quale si nasconde, che ha bisogno di una miccia, di un detonatore per poter esplodere e annichilire il mondo che lo circonda. E pensammo a quanto poco conti il calcio, e quanto poco contassimo noi, che avremmo solo voluto goderci in pace un momento di gioia sorridente o effimero disappunto, e invece avremmo dovuto tapparci in casa rinunciando al piccolo piacere di vedere la partita allo stadio. Non sapevamo ancora di Ciro, e non avevamo ancora ascoltato le parole dolci di Antonella che si facevano strada attraverso l’inconcepibile dolore di una madre amputata del figlio, eppure già temevamo questo giorno infausto, quello di un terremoto purtroppo prevedibile. E non avevamo ancora dovuto sopportare le orribili fotografie di De Santis nel proprio antro, circondato di cani da guerra e croci celtiche e svastiche, come un ridicolo, parodistico simulacro di un dittatore senza popolo. Né avevamo ancora dovuto ascoltare parole di formale cordoglio e sostanziale disinteresse delle istituzioni sportive, che invece per prima cosa hanno anche cancellato le inutili e blande penalizzazioni per chi con colpevole silenzio alimenta i cori della vergogna e gli istinti più bassi delle curve razziste.



Non arriviamo bene a questo giorno, no. Non siamo riusciti a fare di Ciro, come Antonella avrebbe voluto e aveva a gran voce chiesto, il simbolo doloroso di una riconciliazione che avrebbe avuto il sapore di una grande vittoria, pure se pagata a prezzo carissimo. Non abbiamo fatto niente, al di là di lunghi e verbosi discorsi sterili, di qualche iniziativa mai universalmente condivisa e di articoli di stampa lasciati cadere nell’indifferenza. Nessuno è riuscito a farsi ascoltare, seppellito dalla rilevanza mediatica di Genny ‘a carogna, impossibile competere contro uno che buca così lo schermo, a cavalcioni sull’inferriata con sul petto l’istanza alla libertà dell’omicida di Raciti; troppo bello quel soprannome, troppo interessante l’antropologia culturale di cui è figlio, troppo tamarri quei tatuaggi per non soffermarsi su di lui invece che sul sangue di Ciro e su quello probabile che avrebbe potuto successivamente scorrere. E quindi arriviamo a questo giorno chiusi nel solito bunker, sommersi dai divieti, con le squadre antisommossa disposte a cordone attorno a un evento che, in via puramente teorica, sarebbe sportivo. E un sacco di bambini, di famiglie e di papà ci sarebbero andati volentieri allo stadio, mangiando patatine e bevendo cocacola, invece di aver paura anche solo di passare a testa bassa e a tutta velocità per il quartiere in cui c’è lo stadio.



Prima di giocare, abbiamo già perso. Abbiamo perso tutti, di qua e di là, qualsiasi risultato il campo inutilmente esprima. Ha perso la gente, il popolo di due città sorelle che esprimono da sole la gran parte della cultura, della storia e dell’arte di un Paese che della cultura, della storia e dell’arte dovrebbe fare la propria unica risorsa. Abbiamo perso, senza giocarla nemmeno, la partita della civiltà e del perdono. Chi ha diritto di avere rabbia, se Antonella chiede la pace? Chi ha il potere di meditare vendette e ritorsioni, se Antonella vuole un lungo, caldo e condiviso applauso per la memoria sorridente di Ciro? Abbiamo perso, se nemmeno di fronte al sangue e alla morte abbiamo saputo comprendere che nel terzo millennio nulla è più insulso di una battaglia attorno a una partita di calcio.



Eravamo stati tra quelli che avevano chiesto, supplicato anzi, un gemellaggio tra le persone di cultura. Avevamo sperato che quelli che per qualsiasi motivo hanno in mano un microfono o davanti a sé una telecamera potessero usare la propria rilevanza per chiedere sorrisi e sfottò, invece di spranghe e coltelli. Non avremmo mai voluto vedere l’ottusa proibizione all’arrivo dei tifosi della parte solo sportivamente avversa, perché è un tragico ossimoro che un evento così spettacolare sia chiuso agli occhi di chi allo spettacolo desidera assistere. E invece, al di là delle dichiarazioni d’intenti e delle frasi di circostanza, nulla è stato fatto e il giorno del silenzio è arrivato.



Assisteremo da lontano alla partita. Non avremo grida o sorrisi, non ci sarà gioia e nemmeno sportiva sofferenza. Il nostro cuore sarà listato a lutto, e il futuro negato a Ciro sarà tristemente rappresentato dal settore ospiti deserto, perché nel giorno della comune sconfitta non si ospita nessuno. Il dolore è egoista e solitario.



Perché il giorno è arrivato, e noi siamo riusciti a inventare una partita in cui entrambi i contendenti hanno perso.



Senza nemmeno giocare.