Occhetto: gli ex Pci più deboli, nel Pd si escludono a vicenda

di Alessandra Chello
Sabato 31 Gennaio 2015, 23:37 - Ultimo agg. 23:44
4 Minuti di Lettura
La chiave era tutta nell’ambizione di aprire una stagione nuova nel partito. Nella Sicilia degli anni ’70, Achille Occhetto, allora segretario regionale del Pci, iniziò a tessere una tela con la Dc guidata dal giovane Nicoletti e da un gruppo di rinnovatori tra i quali, insieme a Nicolosi e Mannino, c’era anche il fratello del neopresidente: Piersanti Mattarella, ucciso dalla mafia il 6 gennaio del 1980.



Che ricordo ha di quella fase?

«Molto bello. Conobbi Piersanti e Sergio. Con il primo iniziai un percorso fondamentale per la rinascita della politica siciliana. Di lui mi colpì subito la personalità: un uomo colto, per bene e di grande spessore. Aveva studiato all’estero e aveva competenze in campo economico. Era assessore alle finanze, poi divenne presidente della Regione. E se non fosse andata come purtroppo sappiamo presto sarebbe diventato di certo presidente del Consiglio. Solo dopo entra in campo Sergio che segue la strada del fratello. E appare da subito chiaro che il suo impegno è figlio di quello stesso clima già respirato in famiglia».



Lei uomo Pci, Piersanti alfiere democristiano: come è stato possibile costruire un’alleanza del genere in un periodo di netta contrapposizione tra i due partiti?

«Perché allora la Sicilia era il laboratorio politico di anticipazione del compromesso storico che arriverà di lì a poco aprendo una fase politica nuova che in quella terra avrà risvolti drammatici lasciando sul campo numerose vittime. L’elemento che è stato fondamentale per la riuscita di quell’inusuale tandem è stato certamente il fatto che c’era una parte della Dc desiderosa di liberarsi al più presto delle tutele dei vecchi rapporti mafiosi. Una nuova generazione politica: erano cattolici che seguivano le dottrine sociali avanzate dotto il profilo morale, sociale ed economico».



Non le sembra che adesso il Pd sia sempre più simile alla Dc?

«Personalmente sono critico riguardo al programma dell’attuale esecutivo e del Pd. L’errore più vistoso è nel voler continuare a camminare a rimorchio di quelle politiche neoliberiste e moderate che non porteranno davvero da nessuna parte».



Non sarà che è arrivato il momento di rifare un forte partito riformista di sinistra?

«Stiamo assistendo alla nascita di nuove esperienze sullo scenario politico europeo con Tsipras e Podemos contrarie all’egemonia della troika e all’austerità. Ecco, sono certo che queste componenti fortemente critiche da sinistra anticipano il fatto che anche qui in Italia qualcosa cambierà. Bisogna collegarsi di più ai bisogni della gente, va costruita una nuova solidarietà verso le fasce più deboli. Dunque o Renzi cambia registro o se continua a restare dentro il quadro di riferimento delle politiche sbagliate dell’Ue, allora il declino sarà inevitabile».



Gli scontri sul pacchetto lavoro sono stati superati o meno dall’unità ritrovata all’interno dei dem sul nome per il Colle? O è solo una calma apparente che prelude allo strappo definitivo?

«Sono partite che devono restare separate. Questa del Capo dello Stato ha visto la vittoria della democrazia. Ora al di là dei temi di scontro come può essere stato l’articolo 18 se si vuole davvero costruire un nuovo partito di sinistra è indispensabile capire che non lo si può più fare mettendo insieme i soliti frammenti del vecchio modo di fare politica. Oggi occorre un soggetto che per ora è silente. Un soggetto sociale che poi si fa politico e non il solito caleidoscopio di frammenti del passato».



Alla fine la cultura Dc è quella che sembra reggere meglio il confronto con i tempi. Che sia il ritorno della balena bianca?

«Non credo affatto esista la possibilità di una resurrezione della balena bianca. Questo partito democratico va giudicato per le sue politiche e non per le derivazioni dei singoli. Ma è innegabile che le debolezze degli ex comunisti all’interno del Pd dipendono dal fatto che c’è una classe dirigente che ha commesso una serie di errori perché si è posta una sfilza di interdizioni invece di capire che si stava vivendo una fase di pericolosa crisi».



Il premier dunque è riuscito a intestarsi l’operazione Colle. Abilità? O che altro?

«L’ipotesi di un Renzi prigioniero della gabbia del Nazareno non si è realizzata ma non certo per una particolare abilità del premier. Insomma, non c’è stata nessuna genialità perché non aveva altra strada se non voleva che Berlusconi imponesse la sua scelta. In quel caso avrebbe prodotto un capolavoro rompendo con la sinistra esterna al Pd, provocando uno strappo all’interno degli stessi democratici senza contare il fatto che si sarebbe dovuto presentare in aula diviso e debolissimo. Ecco perché questa era l’unica strada che lo mettesse al riparo da un suicidio bello e buono».



Qualche giorno fa lei ha detto che Renzi non avrà lunga vita istituzionale. Conferma?

«Per capire davvero cosa accadrà bisogna uscire dalla centralità dei temi istituzionali. Se Renzi continua con la contestazione moderata interna alla linee dettate dall’Unione Europea allora è certo che si aprirà una frattura davvero molto vistosa nel partito. E a quel punto se gli avevo dato di vita il tempo di una legislatura vorrà dire che gli resterà molto meno».



Insomma, Mattarella è la scelta giusta per questa fase del Paese?

«È un presidente che interpreta in modo fedele la fase attuale caratterizzata da una repubblica parlamentare. E per le sue convinzioni istituzionali e per come lo conosco è quello giusto. Oltre al fatto che quella sua caratteristica che tutti sottolineano - la riservatezza - ci garantirà di essere messi al riparo da eccentriche esternazioni. Inoltre, per l’Italia così impegnata nella lotta alla criminalità l’avere come presidente della Repubblica un uomo simbolo della lotta alla mafia ci mette su un piano decisamente più alto».