Piccolo grande uomo d’Argentina regalò le prime vittorie al Napoli

Piccolo grande uomo d’Argentina regalò le prime vittorie al Napoli
di Franco Esposito
Venerdì 29 Maggio 2015, 23:38 - Ultimo agg. 23:41
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Avrà salutato con una battuta, una delle sue, immediate e dissacranti, anche la signora in abito nero che se l’è portato via. Aveva 89 anni, uno più del Napoli nato nel ‘26. Bruno Pesaola, l’argentino, uno di noi. Un napoletano dell’Avellaneda, il barrio a dieci minuti di auto dal cuore di Buenos Aires. Sessantatrè anni a Napoli, il primo abbraccio nel 1952. Costato 33 milioni, ne guadagnò 6 in due anni.



All'epoca erano soldi. Lui e Napoli. Oltre mezzo secolo insieme, 253 partite da calciatore, ala sinistra poi mezzala, e 234 volte in panchina. Inesausti amanti protagonisti di un dolce idillio, Pesaola e Napoli hanno vissuto una splendida avventura e scritto insieme un romanzo straordinario. «Mai pensato di cambiare città».



Arrivò in mezzo a noi in viaggio di nozze, fresco sposo di Ornella Olivieri, bellissima miss Novara. La luna di miele all’hotel Britannique, all’angolo di Corso Vittorio Emanuele con via Tasso. «Mi sono sentito napoletano fin dal primo giorno». Casa Napoli, dolce casa. Anche quando dovette lasciarla brevemente: non sopportava più Amadei, il fornaretto di Frascati, uno scudetto con la Roma.



Si trasferì al Genoa, ultima stazione della sua carriera di calciatore. Il popolare frascatano delatore del Comandante Lauro? «Me faccia un’altra domanda», l’arguto puntuale dribbling, l’intercalare messo in campo quando il quesito proposto gli sembrava scabroso.



Un suo gol all’Inter a San Siro, gran legnata dalla distanza, un gesto insolito in lui, fu per anni la sigla della Domenica sportiva televisiva. Scaltro e intelligente, furbissimo, competente di spessore, a Napoli ha allenato campioni veri. Omar Sivori, Altafini, Juliano, Zoff, Krol.



Lo scudetto sognato, inseguito, mai afferrato. «Avessi avuto Maradona, l’avrei vinto anch’io prima di Bianchi». Vinse lo scudetto con la Fiorentina. Con lui, esponente di un calcio che non c’è più, si sorrideva e ci si divertiva. Sarebbe bello pensare che se ne sia andato tra guizzi d’ironia.



Neanche un filo di rammarico per non essere riuscito ad evitare lo sgambetto della morte, lui maestro del dribbling ai suoi dì da calciatore. Bruno Pesaola, il piccolo, el petiso, che in Italia ebbe costantemente in regalo il raddoppio della esse nel soprannome, chissà perché.



Fumatore accanito e irrecuperabile, sigarette e whisky ad arrochirne la voce, narratore virtuoso amava raccontare di aver giocato, nel River Plate, con le leggende dell’epoca: Di Stefano, Pedernera, Labruna, Nestor Rossi. A Roma il primo approdo in Italia. A mamma Innocencia, spagnola di Galizia già vedova di papà Pesaola, calzolaio emigrato da Macerata, assicurò che, tempo due anni, sarebbe rientrato a casa.



In Argentina non è più tornato. Succede poi che Gimona del Palermo gli fracassi malleolo, tibia e perone. Addio Roma, pensa seriamente al ritorno all’Avellaneda. Il bagaglio già fatto, viene bloccato da un telegramma di Silvio Piola, campione del mondo con l’Italia nel ’38. «Ti aspettiamo a Novara, abbiamo bisogno di uno come te».



Fece gol al debutto contro il Torino, a novembre, e contribuì alla salvezza del Novara. Petiso in panchina. Un professore di tattica, alto magistero, guizzi di genio, le mosse, e quella capacità esclusiva di saper leggere la partita. Il cappotto color cammello a mo’ di portafortuna indossato anche nei mesi caldi. Intuizioni da sballo, un fine stratega.



«Ho preso il meglio dai tecnici che ho avuto. Cesarini, Bernardini, Shenkey. Una persona squisita, un signore, Monzeglio». Diventa allenatore del Napoli il 29 gennaio 1962. «Persa la A, salviamoci dalla C», titola Il Mattino, e Achille Lauro licenzia Fioravante Baldi. «Me telefona: te piacerebbe allenare il Napoli? Me piacerebbe, ma non posso. Alleno in quarta serie, a Scafati».





Il comandante Lauro riuscì a convincere il presidente della Scafatese, non si sa come. Grande slam, si direbbe ora. Un capolavoro, una magia: il Napoli raccattato dal fondo, trascinato in serie A, e la Coppa Italia portata a casa. «Unica squadra di serie B nella storia del calcio». Mago nel calcio, però mai una mossa giusta, una tattica felice e vincente negli affari.



Investimenti sfortunati, tanti soldi presi a calci, buttati: la coltivazione e il commercio di fiori a Sanremo, dove possedeva un'abitazione vista mare, la fabbrica di vetri colorati per abitazioni di lusso, le assicurazioni, il finanziamento di colti spettacoli teatrali diretti dal figlio Diego, regista.



Manager antemarcia, Petiso provò in seguito a veicolare verso Napoli l’interista Domenghini. Ricorrendo ad un ardito artifizio: campione d’Italia con la Fiorentina dell’industriale dell’inchiostro Baglini, dà la sua firma a Fraizzoli, salvo poi rompere con il presidente dell’Inter e pure con Ferlaino. Testimoni della brutta storia due giganti del giornalismo, Antonio Ghirelli e Gualtiero Zanetti.



La vicenda puzza di squalifica in arrivo. Inevitabile l’intervento di Artemio Franchi, inimitabile dirigente. «Firmi con la Fiorentina, è un consiglio affettuoso...». L’ironia come forza sottile e poderosa, lontano e vicino alla linea dell’out e alla panchina. Un’arma di difesa e d’attacco. Il sale dell’esistenza di Bruno Pesaola. E il gusto inesauribile della battuta per afferrare il lato giusto dei rimbalzi matti del pallone e della vita.



«Me hanno rubato la idea», in risposta alle rimostranze di un giornalista bergamasco indignato: gli aveva assicurato che avrebbe attaccato l’Atalanta dal primo minuto, invece innalzò ostinate barricate difensive. Sette campionati da calciatore con la maglia del Napoli. Volate sulla fascia e cross a beneficio di Jeppson e Vinicio.



Pesaola con i polmoni a mantice, a dispetto di tre pacchetti di sigarette al giorno. Il personalissimo esperanto per sistemare sul podio i presidenti che ne hanno scandito l’avventura di allenatore ricco di virtù. «Roberto Fiore il migliore, poi Gioacchino Lauro e l’ingegnere».



Brancaccio, non Ferlaino, lasciato fuori dal podio.
Stavolta senza ironia: non si sono mai presi, e lui andava spesso a dirlo in televisione. Il pungente opinionista è l’ultima immagine che ci resta di lui. Riconoscenti e commossi, lo salutiamo con un inchino e una lacrima. Grazie di tutto, caro indimenticabile Petiso.
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