Furio Bordon, romanziere e drammaturgo di fama, è tornato in libreria con Il poeta e il suo mostro (Sellerio, pagine 145, euro 13).
Nell’autunno del 1900, mentre vagabondava per Parigi, Oscar Wilde, da poco uscito dal carcere, trasandato, squassato nel fisico e nello spirito, entra in uno scalcinato teatrino e nella sala deserta s’imbatte in un «mostro»: John Merrick, «l’Elephant Man», uno scempio della natura, uno spaventoso fenomeno da baraccone. La mostruosità gli si fa incontro e come se lo conoscesse da tempo, inizia a parlare con Oscar Wilde, a scavare nella sua condotta deplorevole. Lo scrittore è sorpreso dalle parole che rovistano nel suo passato, ma anziché rancore per quell’essere inguardabile, prova una sorta di tenerezza. Si sente anche lui «mostro» con la faccia coperta da un impasto di unguento e cipria e dallo scambio d’accuse e rinfacciamenti verrà fuori un’inaspettata realtà, e il vizio morboso che da sempre lo devasta, gli mostrerà la sua vera faccia.
Un deforme nell’aspetto, un deforme nello spirito: questo incontro è una metafora delle nostre fragilità?
«Non pensavo a nessuna metafora perché con le similitudini si costruisce qualcosa di falso, e questa sarebbe la vera mostruosità.
Perché, secondo lei, Wilde espatriato a Parigi dopo aver scontato la condanna per sodomia, al processo ha taciuto sulle responsabilità del giovane amato? Una sorta di harakiri morale?
«Cerco di condividere questa sua scelta immedesimandomi in lui anche se non la capisco. Ad un certo punto dice: io sapevo che sarei finito in galera, che mi sarei rovinato; che stavo correndo incontro al disastro; che potevo fermare tutto dicendo alcune cose che avrebbero trasportato la colpa del processo da me a Lord Douglas. Ma sapete perché non l’ho fatto? Perché lo amo. Perché l’amore quando tu lo provi è un dono meraviglioso e l’amore non si misura con la bilancia del bottegaio. Lo dai e basta. Ed è questo che ha fatto. L’uomo che ha scritto le frasi più ciniche della letteratura mondiale, era pieno di un amore candido, di quelli tramandati dai grandi personaggi della mitologia greca».
Quanto può essere ingiusta la giustizia?
«Per quanto riguarda Oscar Wilde è stata molto ingiusta. Basta leggere cosa scrive della sua detenzione. Oggi non siamo a quei livelli, ma la carcerazione non dovrebbe essere un’espiazione quotidiana. Anche oggi il sistema carcerario – Italia compresa - è abbastanza orrendo a quel che leggo. Un ragazzo giovane che commette qualcosa di brutto e va in carcere frequenta una scuola di delinquenza. Entra apprendista ed esce laureato in delinquenza».
Marcello Mastroianni, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita (Fontana Liri, 26/09/1924 – Parigi, 19/12/1996), recitò per l’ultima volta in teatro il 3 novembre 1996, a Napoli, sul palco del Diana. In un suo testo, «Le ultime lune». Che cosa ricorda?
«Il pubblico di Napoli lo osannò, anche se nei suoi ultimi due spettacoli (gli ultimi della sua vita), recitava seduto perché non ce la faceva più a stare in piedi. Ricordo che telefonò al produttore e a me quasi scusandosi per la sua salute. Era umile e sincero. Era più di una star: era un grande attore. Marcello adorava Napoli. Mi raccontò un aneddoto. Un giorno davanti al ristorante c’era un lustrascarpe, abbastanza anziano. Invitato a farsi lucidare le scarpe acconsentì, per aiutare chi aveva bisogno. Finito il lustrascarpe gli sparò una cifra esosa. Marcello gli disse: ma sta scherzando? E il lustrascarpe senza scomporsi: dotto’, ma voi da quanto tempo non venite a Napoli? E Marcello: saranno due anni. E allora dotto’? Ci so’ gli arretrati. Quella, diceva, era la differenza tra Roma e Napoli: sbruffoneria nella capitale, comprensione sotto il Vesuvio».