Massimo Manzi a Napoli: «Vi racconto mio padre Alberto Manzi, il maestro d’Italia»

Alberto Manzi, a cent’anni dalla nascita, ricordato dal figlio Massimo

Alberto Manzi
Alberto Manzi
di Donatella Trotta
Sabato 4 Maggio 2024, 08:00 - Ultimo agg. 5 Maggio, 14:04
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Educazione e passione. Il binomio di uno scritto pedagogico rodariano del 1966 permea la vita e l’opera di Alberto Manzi (Roma, 3 novembre 1924 – Pitigliano, 4 dicembre 1997): «maestro d’Italia» e cittadino del mondo coetaneo di Rodari e di Lodi, don Milani, Dolci. Un uomo a più dimensioni: ricordato, oggi, per la sua trasmissione della Rai tv «Non è mai troppo tardi» ma che ha innovato la pedagogia e la cultura con il suo impegno civico di insegnante, scrittore pluritradotto, poeta, divulgatore scientifico, attivista nel sociale, pioniere della transmedialità e umanista a tutto tondo. 

«Per me, resta soprattutto mio padre: che a casa, come a scuola, è sempre stato un maestro del fare», testimonia il figlio Massimo Manzi, classe 1955, pittore, illustratore, grafico e designer editoriale dopo gli studi in Filosofia alla Sapienza di Roma, allievo di Argan, atteso a Napoli, nell’ambito di «LibrOrchestra, il 25 ottobre con lo spettacolo «Orzowei» ispirato dal romanzo paterno omonimo. 

Un’eredità ingombrante... Come la sintetizzerebbe? 
«Legandola a tre date che accompagnano i miei ricordi d’infanzia con papà.

Quando è stato scritto Orzowei avevo 5 anni. Sono cresciuto identificandomi con la storia del protagonista Isa. Nel 1957 esce la fiaba Testa Rossa, io ho 7 anni e vivo un’esperienza straniante che mi lega al testo: di cui sono tra i protagonisti, perché mio padre ha inserito tra i personaggi anche noi figli e alcuni suoi allievi. Scriveva di pomeriggio-sera, all’unico tavolo della casa dove si mangiava, studiava, disegnava. Insieme: era un disegnatore compulsivo, circondato da libri e da fogli con i suoi schizzi e scarabocchi evocativi e funzionali ai suoi racconti. Narrativi e didattici».

Senza confini tra i suoi ruoli? 
«Già. Per me, prima che maestro era uno scrittore. Un narratore. Che vedeva l’insegnamento come un atto narrativo, volto a stimolare curiosità, domande e dialogo, che nascono anche dalle risposte sbagliate. La fantasia e l’immaginazione erano per lui motori di ogni didattica e scoperta. È stato un padre attento, ma riservato, rigoroso nei suoi princìpi etici non negoziabili, come il rispetto dell’altro: trattava noi figli come i suoi allievi e viceversa. Ricordo che mentre leggevo Testa Rossa sui fogli che lui mi passava, scrivendo, era come ascoltare il racconto dalla voce di papà, la stessa che la sera sul bordo del letto ci narrava storie inventate al momento, con il sapore della sorpresa. Purtroppo di quelle storie intime nulla è rimasto».

Ma è restato il loro imprinting: quanto potente, in lei? 
«Tanto. Nasco illustratore e pittore, prima del mio lavoro di information designer. Per mimesi, con la forza dell’esempio. Il regalo per la mia prima comunione fu una cassetta di colori a olio. Poi ho lavorato per anni nei giornali e nello studio di Maoloni, che ha curato il restyling di varie testate, tra cui “Il Mattino”: il logo del gallo l’ho ridisegnato io. Siamo molto legati alla città: mio padre lavorò per un periodo alla Rai di Napoli in una trasmissione per ragazzi».

Come avete vissuto in famiglia la «rivoluzione» della celebrità paterna in tv? 
«Con estremo pudore e un certo imbarazzo. Non solo per i ritmi sovvertiti delle nostre abitudini, quanto per il carattere schivo di papà. Ma in fondo continuava a fare il suo mestiere, e ci siamo rilassati».

E la terza data memorabile per il suo rapporto con papà? 
«Il 1974: quando esce La luna nelle baracche, primo romanzo della sua trilogia sudamericana, ero già all’università, impegnato nel sociale e in politica. E colgo in quel libro l’aspetto politico. Il protagonista Pedro, un indio alfabetizzato, combatte per il suo popolo oppresso. Con quella cultura che per papà era ancora un valore, non come oggi, uno strumento di riscatto sociale. Di emancipazione. In tutti i suoi libri c’è sempre qualcuno che insegna e qualcuno che impara. E i buoni libri offrono sempre nuove letture: siamo noi che cambiamo».

Come affronterebbe Alberto Manzi, uomo in rivolta contro ogni iniquità, il nostro tempo definito da papa Francesco un «cambiamento d’epoca»? 
«So per certo che la diversità sarebbe stata per lui un valore fondante: tradito dalle ultime trovate sugli alunni extracomunitari del ministero dell’Istruzione, che ha perso l’aggettivo “pubblica” per un sedicente “merito” ben poco democratico». 

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