Tennis, Claudio Pistolesi: «Oggi tutti vogliono Sinner. Serve vincere, ma pensando al proprio corpo»

Intervista all'ex numero uno d'Italia, oggi rappresentante dei coach nel Player Council Atp

Tennis, Claudio Pistolesi: «Oggi tutti vogliono Sinner. Serve vincere, ma pensando al proprio corpo»
Tennis, Claudio Pistolesi: «Oggi tutti vogliono Sinner. Serve vincere, ma pensando al proprio corpo»
di Silver Mele
Mercoledì 8 Maggio 2024, 16:41 - Ultimo agg. 9 Maggio, 16:36
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Claudio Pistolesi fu icona delle ambizioni mondiali del tennis italiano, bruciando le tappe prima da juniores, poi nel circuito maggiore. Nell’aprile del 1987 all’età di 19 anni, 7 mesi e 18 giorni il ragazzo di Trastevere divenne a Bari il più giovane tennista azzurro a vincere un titolo Atp, sconfiggendo prima Aaron Krickstein, poi in finale un altro italiano, Francesco Cancellotti. Ci sono voluti trentatré anni prima che il record fosse aggiornato e che il testimone finisse nelle mani dell’enfant prodige per eccellenza: con il titolo di Sofia del novembre 2020 Jannik Sinner abbassò di cinque mesi la soglia della precocità azzurra.

Il resto è storia recentissima di un fenomeno che guida il movimento italiano, mai tanto florido nella sua storia. Pistolesi che è oggi uno dei coach più affermati al mondo, in grado di vantare collaborazioni prestigiose con Monica Seles, Anna Smashnova, Daniela Hantuchova e ancora Davide Sanguinetti, Simone Bolelli nonché di ricoprire la carica di rappresentante dei coach nel Player Council dell’Atp, avanza una riflessione sui ritmi forsennati dell’attività internazionale. E sulla necessità di una gestione accorta del talento. A Madrid ad esempio, al forfait di Djokovic sono seguiti i ritiri di Sinner e Medvedev, quindi l’eliminazione dell’acciaccato Alcaraz che come gli altri salterà Roma.

Si gioca troppo, a discapito della salute dei giocatori?
«È un argomento delicato che mi capitò di affrontare già qualche anno fa quando, tra il 2010 e il 2011, fui chiamato a seguire lo svedese Robin Soderling, numero cinque al mondo.

Lui era uno stakanovista del lavoro e degli allenamenti. Tendeva ad esagerare perché quello era il suo modo di preparare l’agonismo. Vincemmo tre tornei in quella stagione, Brisbane, Rotterdam e Marsiglia dopodichè provai a fargli capire che se l’obbiettivo era di diventare il numero uno doveva imparare a gestire sforzi fisici e mentali. Purtroppo scelse altro e le nostre strade si separarono. Solo qualche tempo dopo, lo stress accumulato lo portò ad ammalarsi di una brutta forma di mononucleosi e a scegliere per il ritiro a soli 26 anni. Un peccato enorme».

A distanza di tredici anni è tutto più veloce: gli atleti, le palline, il mondo della comunicazione, i tifosi. Ovviamente anche il rischio infortuni.
«Sono sotto attacco continuo. Questi ragazzi sono tutti molto giovani ed hanno già vinto tanto. E tanto ancora vogliono vincere, nelle sensazioni spesso esaltanti delle loro performance. Saltano da un fuso orario all’altro, da una superficie all’altra, pressati da sponsor che elargiscono tantissimi soldi ma che hanno le loro pretese. Tutti ad esempio vogliono oggi un pezzettino di Sinner: un selfie, una dedica, un’intervista. Perfino la vita privata fa fatica a sgomitare con i ritmi folli e intensi degli allenamenti quotidiani. Non si finisce mai e ogni minuto conta. Alla lunga se non c’è uno stacco si rischia il crollo che molto spesso non dà preavvisi. Pertanto vincere non significa che non bisogna fermarsi. Anzi è proprio quando uno vince che deve prevenire, stare un passo avanti rispetto al proprio corpo e farlo recuperare. È facile a dirsi dopo che succede, mai prima. Anche perché a quei livelli ogni torneo spinge per averti e se non giochi inevitabilmente qualcuno rimane scontento. In sintesi questi ragazzi devono capire che non possono far contenti tutti e prendere a modello Roger Federer che era abilissimo a staccare la spina per rigenerarsi. Non a caso è arrivato fino alla soglia dei quarant’anni».

Oggi, proprio in Florida, dove conquistò la prima grande vittoria in carriera, l’Orange Bowl del 1985 che lo rese numero 1 al mondo under 18, il coach romano ha creato e dirige la sua Claudio Pistolesi Enterprise, un centro d’allenamento all’avanguardia, che ci tiene a non definire accademia, incentrato sulla crescita umana a 360 gradi di ragazzi – diversi italiani – che introdotti al college abbinano studio e tennis ad altissimi livelli. Il legame resta tuttavia fortissimo con la sua città d’origine e con Napoli.

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«Il torneo in villa comunale è un challenger solo sulla carta. I giocatori ne parlano in giro per il mondo e si fa a gara per venire a giocare a Napoli, in uno dei club più belli al mondo. Il torneo di quest’anno, vinto alla grande da Luca Nardi, ha dimostrato che le qualità organizzative ci sono e che tra qualche anno il calendario maggiore potrebbe riospitare una tappa del torneo. Per quanto difficile e tribolata l’edizione dell’Atp 250 di due anni fa, restano stupende le immagini di quello stadio sul mare con la finale tutta italiana tra Musetti e Berrettini. Nella mia visita recente in Campania ho però constatato anche la grande professionalità del Tennis Club Pozzuoli, dove l’Itf da 25mila dollari è stato un successo che si ripeterà a settembre, e l’accoglienza degli amici del Tennis Club Caserta dove da tradizione si gioca un torneo internazionale femminile che è un gioiellino».

Ricordi particolari con amici napoletani del passato?
«A Massimo Cierro sono legati racconti talvolta eccessivi di quel match al Foro Italico in cui ci prendemmo a male parole. Siamo molto amici e ci rispettiamo da sempre: in campo nessuno dei due voleva mai perdere, ma finiva lì. Con Diego Nargiso abbiamo condiviso le emozioni della Coppa Davis e Potito Starace credo sia stato il più forte campano di sempre. È un ottimo ragazzo. Ma ricordo anche Mario Visconti, ebolitano che nel 1993 arrivò al terzo turno al Roland Garros. E una marea di bravissimi maestri che fanno della Campania un centro propulsore per tutto il movimento nazionale».

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