Taylor Swift e Beyoncé: il matriarcato pop

La Swift conquista un nuovo primato ma la collega reclama le origini (anche) nere della cultura country

Taylor Swift
Taylor Swift
di Federico Vacalebre
Domenica 21 Aprile 2024, 23:48 - Ultimo agg. 23:49
5 Minuti di Lettura

Taylor Swift lo dice chiaramente, sia pur sotto forma della solita metafora amorosa, del solito piagnisteo sulla sua sfortuna pop con gli uomini: «Tu non sei Dylan Thomas e io non sono Patti Smith, questo non è il Chelsea Hotel e noi siamo due idioti moderni», canta la trentaquattrenne della Pennsylvania in «The tortured poets department», il suo nuovo album, il più atteso, e prenotato dell’era dello streaming (313 milioni nel solo primo giorno di uscita).

Chissà se la Beyoncé di «Cowboy Carter» condividerebbe, magari rileggendo nomi e luoghi nell’ottica della cultura afroamericana, o del black country risvegliato e reinventato dal suo album, che sarebbe stato il più scaricato di tutti i tempi nelle prime 24 ore, non fosse arrivata la collega a rubarle il record.

Il duello non è nuovo, e nemmeno il risultato finale, i bianchi vincono sempre. Ma stavolta Queen Bay ha operato un’invasione di campo, si è (ri)presa il pianeta country da cui Tay era partita per diventare una delle donne, e delle milionarie, più influenti del pianeta.

E ne ha rivendicato le radici nere mischiando Dolly Parton («Jolene»), Beatles («Blackbird»), Beach Boys, Nancy Sinatra, Willie Nelson, Chuck Berry, Son House, Sister Rosetta Tharpe, Roy Hamilton, Allison Russell, rock, r’n’b, blues, zydeco, black folk e, soprattutto, Linda Martell, la prima donna di colore a suonare al Grand Ole Opry, l’istituzione per eccellenza di Nashville, e di Charley Pride.

Mentre la moda si butta sull’immaginario da cowboy, anzi da cowgirl (la Levis ha riscontrato un più 20% di fatturato grazie alla promozione indiretta di un suo post, stivali e cappelli western vanno a gonfie vele), lei sottolinea le sue origini texane e immagina il country come suono sì identitario, ma nel rispetto delle differenze e nella loro valorizzazione, non chiuso, non conservatore. Come già fecero gli «outlaws» ed i paladini dell’alt country, ma il suo riferimento sono il Ray Charles di «Modern sounds in country and western music» del 1962 e la Tina Turner di «Tina turns the country on!» del 1974.

Certo, i 27 brani della versione più espansa sono troppi e parecchie cose sono caduche a dir poco, ma più di un pugno di brani funziona alla grande, tra profumo analogico (un disco suonato, con strumenti tradizionali e, perdipiù, acustici) e furbizie digitali. C’è persino un po’ di Italia con «Caro mio ben» di Tommaso Giordani (ma l’attribuzione è dubbia), settecentesco compositore napoletano, in questo «act II» (da cui tutte le «i» raddoppiate dei titoli delle canzoni), magnificamente cantato e immaginato come voce di un’America anti-bigotta, anti-pregiudizi, anti-conservatorismo, celebrata nel requiem finale di «Amen»: «Questa casa è stata costruita con sangue e ossa e si è sbriciolata, sì, si è sbriciolata, le statue che hanno eretto erano belle, ma erano bugie di pietra».

Video

Un disco anti-Trump e ancor più anti-trumpisti, naturalmente. E su quel fronte Biden aspetta di vedersi schierare il prima possibile la Swift, con il popolo dei swifties, americanissimo, globale, multirazziale, variopinto, volendo anche fluido. Troppo lungo anche il suo di disco, addirittura 31 canzoni considerando anche le 15 del bis di «Ttpd: the anthology», musicalmente ben più leggero, a tratti inconsistente, di quello dell’ex Destiny’s Child, e forse anche per questo in testa alle classifiche, oltre che per lo straordinario potere narrativo dei testi della bionda star più amata di tutti i tempi (e che Marilyn Monroe e Brigitte Bardot ci perdonino).

Se Post Malone è ospite di tutti e due gli album, la sacedotessa del punk ha ringraziato Taylor per la citazione: «Sono commossa per essere stata menzionata in compagnia del grande poeta gallese Dylan Thomas», ha scritto su Instagram Patti Smith, che visse al Chelsea hotel di New York come l’autore di Ritratto dell'artista da cucciolo, come la crema della beat generation e quella del rock.

Tay non è un’idiota moderna, ma l’assoluta regina della comunicazione dei nostri tempi: sposta il Pil e i risultati delle elezioni, ha portato a termine un tour da 1 miliardo di dollari, con dieci singoli ha occupato tutta la top ten, è la donna che ha avuto più numeri 1 nella storia della musica...

Nemmeno Beyoncé Gisele Knowles è un’idiota moderna, ma probabilmente si sarebbe trovata più a suo agio della rivale nelle stanze decadenti del decadente hotel newyorkese cantate da Leonard Cohen ricordando l’unica notte di sesso divisa con Janis Joplin, bianca che cantava i blues neri: «Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel/ stavi parlando così coraggiosa e così dolce/ Me lo stavi succhiando sul letto sfatto/ mentre le limounsines aspettavano sulla strada/ Quelle erano le ragioni e quella era New York/ stavamo correndo per i soldi e per la carne/ e quello era chiamato amore per gli operai della canzone/ probabilmente lo è ancora per quelli che sono rimasti».

Ps. Non è un caso che in questo articolo non siano stati citati i (celebri) compagni delle due superstar.

© RIPRODUZIONE RISERVATA