«Il mio American Buffalo
tra i vicoli di Spaccanapoli»

di Luciano Giannini
Martedì 27 Settembre 2016, 23:19
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«I riferimenti sono “Tu vuo’ fa’ l’americano” di Carosone e “I soliti ignoti” di Monicelli, ma virati con colori che via via diventano più scuri». Dall’Immortale della serie «Gomorra» al Professore di «American Buffalo» firmato nel ‘75 da David Mamet: Marco D’Amore si rituffa, dopo la fiction di Sky, tra le onde predilette del teatro, dov’è nato, e sceglie «un testo messo in scena da noi una trentina d’anni fa con Massimo Venturiello e Sergio Rubini e, in seguito, da Luca Barbareschi, unico detentore dei diritti per l’Italia del drammaturgo americano. Luca e io ci siamo conosciuti sul set di un film che ha prodotto, “Brutti e cattivi”, di Cosimo Gomez, una commedia nera e grottesca sul mondo della diversità. Mi ha spiegato il progetto, mi ha fatto leggere il testo – bellissimo – ed eccomi qua». «American Buffalo» è prodotto da Barbareschi ed è diretto dallo stesso D’Amore, in scena con Tonino Taiuti e Vincenzo Nemolato. Dopo l’anteprima di ieri, lo spettacolo debutta stasera al piccolo Eliseo, la storica sala romana rilevata da Barbareschi dopo la chiusura, dove resterà in scena fino al 23 ottobre. In omaggio alla formula del teatro solidale, gli incassi saranno devoluti alle popolazioni colpite dal terremoto del Centro Italia. Ma c’è di più: D’Amore ha rifiutato una banale trasposizione e ha ambientato l’azione non in America, bensì nel centro storico di Napoli, affidando a Maurizio De Giovanni il compito di riscrivere il copione.

In che modo, Marco?

«In un dialetto dei nostri tempi, che non è certo quello di “Gomorra”, non ha bisogno di sottotitoli».

Perché l’ambientazione partenopea?

«Nei personaggi di Mamet ho riconosciuto tipi umani che tante volte ho incontrato, creature di ogni età buttate per tutto il giorno in piccole botteghe oscure, straparlando della vita con un linguaggio schietto, crudo, a volte volgare, comunque non edulcorato e con una lingua tronca e musicale allo stesso tempo, che accomuna inglese e napoletano; ma ho voluto raccontare anche un certo tipo di follia legata al sogno a stelle e strisce. Ed è scattata la scintilla, l’intuizione».

Quale?

«Portare la storia di Mamet nei Quartieri Spagnoli: un ometto, che evoca quello di “Tu vuo’ fa’ l’americano”, un bottegaio, vende per poche lire a un collezionista un American Buffalo, moneta di mezzo dollaro che in base al conio può avere grande o alcun valore. Si accorge dell’errore e con l’aiuto del Professore e di un Guaglione, cerca a ogni costo di rubarla e recuperarla. Il fallimento del piano riporta ai “Soliti ignoti”, ma le atmosfere sono diverse. Più il colpo diventa imminente più la tinta chiara dell’inizio si scurisce, come i personaggi, che diventano cupi e cattivi, perché la pressione li schiaccia».

Una trama esile, tuttavia.

«Conta poco quel che si racconta, molto di più quel che scorre tra i personaggi e quel che essi non si dicono. Per giunta, abbiamo snellito e svecchiato il copione originale evitando, tra l’altro, riferimenti ormai datati. Tutto si chiude in un unico tempo di un’ora e mezzo».

La sua regia?

«Consiste sempre nel concertare, assieme agli attori, quel che può esaltare il testo e la loro abilità. La scenografia mischia naturalismo e irrealtà in modo personale».

Verrà a Napoli?

«Lo desidero, ma qualche teatro dovrà invitarci».

La seconda serie di «Gomorra» sta eguagliando il successo internazionale della prima, pur nella sua diversità rispetto alla precedente.

«Ho sempre detto che sono due declinazioni diverse dell’identico tema. La prima aveva grande potenza visiva, faceva dell’azione la propria forza; la seconda ha puntato più sulla psicologia dei personaggi; è stata più intima e, forse, anche più violenta, ma non ha deluso in termini di gradimento, ascolto e acquisto all’estero».

Chi non è morto finora, tornerà anche nella terza stagione. Anticipazioni sulla sceneggiatura?

«Almeno nella prima puntata ci saranno tutti i sopravvissuti.
Poi, non so. I contenuti? Ho idea che la serie non smetterà di raccontare il presente. E penso, per esempio, alle baby gang. È una realtà così allarmante e attuale che sarebbe miope trascurarla».
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